Aiutiamoli a casa loro? – di Daniele Ciravegna

Aiutiamoli a casa loro? – di Daniele Ciravegna

Ultimamente – dato, da un lato, il ripetersi degli eventi tragici in cui sono incappati numerosi immigrati provenienti dai paesi del Sud del mondo e, dall’altro lato, il diffondersi nei paesi sviluppati della proclamazione di istanze politiche sulla necessità di ridurre, in modo rilevante, i flussi in entrata – si è tornato a parlare in modo rilevante dello slogan “Aiutiamoli a casa loro”, cioè ridurre i flussi in entrata da noi attraverso la riduzione dei flussi in uscita da loro, anziché ciò che si sta cercando di fare attualmente, che consiste nel cercare di ridurre i flussi in entrata da noi bloccando l’ultima tappa (la traversata del Mar Mediterraneo), bloccando i migranti in campi di raccolta (un tempo di parlava di campi di concentramento) in paesi intermedi (leggi principalmente: Turchia, Libia, Tunisia, Marocco) o rifiutando di accogliere i predetti immigrati o espellendoli nel giro di pochi giorni.

Per rispondere a questa domanda, s’impone una precisazione della stessa: per il loro piacere o per il nostro piacere? Inoltre occorre avere ben presente la situazione in cui si trovano i paesi sottosviluppati di cui parliamo. Ci troviamo in presenza di sistemi economici e sociali ove operano due potenti circoli viziosi: i) basso prodotto pro capite, basso consumo finale pro capite, basso o nullo investimento pro capite (sia in termini di infrastrutture sia in termini di capitale impiegato direttamente nelle unità produttive sia in termini di capitale umano) – poiché (quasi) tutto ciò che è prodotto va necessariamente in consumi finali, e non basta – conseguentemente poca o nulla crescita del prodotto pro capite, che permane; ii) basso prodotto pro capite, basso consumo finale pro capite, insufficiente livello di alimentazione e di acquisizione di capitale umano e quindi lavoratori scarsamente produttivi, per mancanza di energia lavorativa e di istruzione/formazione – conseguentemente poca o nulla crescita del prodotto pro capite. Per uscire da questi circoli viziosi, occorre poter aumentare i consumi finali di tipo alimentare pro capite (non c’è possibilità di sviluppo per una popolazione che muoia di fame!) e aumentare gli investimenti in capitale fisico e in capitale umano, per intraprendere una via di sviluppo; il che non può essere fatto che attraverso un aumento delle importazioni senza pagarle, o senza pagarle sùbito, cioè senza aumentare contemporaneamente le esportazioni, che sono concorrenti dei consumi finali e degli investimenti interni.

Venendo al caso nostro, aiutarli per il loro piacere significa donare beni di consumo alle popolazioni che vivono al di sotto del livello di sopravvivenza – che non sarebbero comunque venute da noi, poiché ad emigrare non sono i più poveri (e neanche i benestanti) – bensì alle classi medie che hanno risorse per sostenere i costi per il viaggio, ma che vedono migliorare le condizioni di vita locali e possono soprassedere dall’emigrare. Significa, contemporaneamente, donare loro beni d’investimento e attività d’istruzione e di formazione professionale affinché ricevano risorse per sviluppare nuove attività produttive autonome.

Quest’ultimo tipo di aiuto potrebbe non avere risultati positivi, per cui le popolazioni in parola continuerebbero a persistere all’interno dei predetti due circoli viziosi della povertà: si è avuto un intervento di solidarietà passiva, e nulla più, che lascia le cose come erano prima dell’intervento. Altrimenti, potrà iniziare l’uscita dallo stato di sottosviluppo economico e potrebbe anche crearsi la situazione nella quale la crescita della produzione permetta di avere più beni di consumo e d’investimento e anche di poter esportare parte della loro produzione: la solidarietà è diventata solidarietà attiva.

Talvolta, quando si parla di solidarietà internazionale, si sente affermare che i paesi sviluppati dovrebbero abbassare le tariffe doganali verso i paesi poveri per lasciar libero accesso ai beni prodotti da questi. Cosa significa questo? Null’altro che permettere a questi paesi di pagare, con le proprie esportazioni, i beni che importano dai paesi ricchi. È questa vera solidarietà o semplicemente uno scambio commerciale? Lo scambio commerciale alla pari va bene fra i paesi ricchi. Se i paesi ricchi vogliono intraprendere la via della solidarietà (e della giustizia), devono regalare i beni che servono ai paesi poveri per farli uscire dai circoli del sottosviluppo. Altrimenti sarebbe non solo per il piacere loro, ma anche per il nostro piacere.

In effetti, accade di sentir dire che sostenendo, mediante piani di finanziamento ispirati a solidarietà, i paesi economicamente poveri, perché provvedano essi stessi a soddisfare le domande di beni di consumo e d’investimento per lo sviluppo delle proprie economie, non solo si può produrre vera crescita economica per i paesi sottosviluppati, ma si può anche concorrere a sostenere le attività produttive dei paesi ricchi. Questa considerazione non è condivisibile poiché, se la solidarietà è mirata a permettere a tutti i popoli di avere quanto è loro necessario per vivere in modo adeguato, il fatto che si abbia, come conseguenza, il sostegno all’attività produttiva dei paesi ricchi dovrebbe essere fatto di nessuna rilevanza. Inoltre, la predetta affermazione è anche errata in termini economici, poiché i paesi ricchi non hanno alcun beneficio in termini di benessere economico se producono beni che vengono ceduti gratuitamente ad altri: produrre senza avere la disponibilità dei beni prodotti, né oggi né mai, non è un fatto positivo in termini di benessere materiale del paese donatore, poiché questo benessere non è dato dalla quantità e qualità dei beni prodotti, bensì dalla disponibilità degli stessi.

A questo proposito si può ricordare quanto scritto nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004), riprendendolo da diversi padri della Chiesa: «Quando doniamo ai poveri cose indispensabili, non facciamo loro delle elargizioni personali, ma rendiamo loro ciò che è loro» (§ 184), e si tenga a mente anche quanto scrive San Giovanni XXIII nell’enciclica Mater et Magistra (1961): «È quindi indispensabile e rispondente a una esigenza di giustizia che l’accennata opera tecnico-finanziaria sia prestata nel più sincero disinteresse politico, allo scopo di mettere le comunità in via di sviluppo economico nelle condizioni di realizzare, esse stesse, la propria ascesa economica e sociale» (§ 160).

La stessa osservazione vale anche nei confronti di coloro che ritengono che sia scandaloso che un paese ricco doni risorse monetarie o finanziarie a un paese povero e che questi spenda le predette risorse per comprare beni da un paese terzo, anziché dal paese donatore. Se quest’ultimo vuole “aiutare” il paese povero, gli deve regalare beni o strumenti monetari o finanziari; se questi ultimi ritornano per acquistare beni prodotti dal donatore è come se questi avesse donato direttamente i beni; ma potrebbero non ritornare, poiché il paese beneficiario potrebbe utilizzare gli strumenti monetari o finanziari ricevuti per comprare beni da terzi, e magari ne potrebbe acquistare una maggiore quantità di quella che avrebbe avuto dal paese donatore, perché i beni da terzi costano di meno. Il paese che dona beni, moneta o crediti al paese povero, non deve avere l’arrière-pensée di avere un beneficio esportando poi beni nel secondo paese, oltretutto perché – come detto poco sopra – non è un beneficio produrre beni senza poterne avere la disponibilità.

In ogni caso, si può ben capire che, se ispiratore dell’operare è l’anelito della solidarietà, gli effetti positivi sull’attività produttiva dei paesi ricchi e i guadagni che gli stranieri possono prevedere di realizzare nei paesi sottosviluppati non devono avere alcuna rilevanza e possono non avere alcun effetto positivo se non il compiacimento, la gioia di contribuire a una migliore distribuzione dei beni, che risponda all’utilizzo universale ed equo dei beni della natura e dei beni prodotti dall’uomo. E sarebbe meschino che i paesi ricchi intraprendessero azioni di sostegno in termini di beni di consumo e/o in termini di beni d’investimento e/o di formazione professionale – con i conseguenti miglioramenti sopra descritti nelle condizioni di vita delle popolazioni dei paesi sottosviluppati – solo per cercare di bloccare sul nascere i flussi migratori da questi ultimi paesi verso i paesi ricchi stessi (per il loro piacere, poiché questi flussi migratori creano forti disagi per le nazioni che li accolgono controvoglia) e non perché si pensa che il benessere delle popolazioni dei paesi sottosviluppati possa essere meglio realizzato se queste popolazioni possono rimanere nell’habitat naturale, culturale e sociale di origine, invece di dover emigrare per forza verso altre società, l’ingresso nelle quali ultime non è scevro di rilevanti costi personali in termini emotivi, culturali, sociali e di abitudini di vita.

In sintesi, le migrazioni di popolazioni – che costituiscono gran parte della storia dell’umanità – non si esauriscono distruggendo le vie attraverso le quali esse si svolgono, bensì eliminando la causa delle migrazioni fra le diverse aree del Pianeta e, precisamente, concorrendo a elevare le condizioni delle popolazioni aventi i livelli di vita più bassi fino a portarli a livelli adeguati rispetto a quelli delle popolazioni più benestanti.

Daniele  Ciravegna