Dante e l’idea dell’Europa basata sulla persona (2) – di Umberto Baldocchi

Dante e l’idea dell’Europa basata sulla persona (2) – di Umberto Baldocchi

Pubblichiamo la seconda parte dell’articolo di Umberto Baldocchi, dopo quella di due giorni fa(CLICCA QUI)

Una unità che genera diversità

E’ alla cultura della persona che si ricollega anche il motto europeo ben diverso da quello americano che è E PLURIBUS UNUM (Dalla molteplicità l’unità). Notoriamente l’ UE ha invece come motto UNITA’ NELLA DIVERSITA’.

In realtà il motto europeo indica una realtà molto diversa, per certi aspetti opposta. L’ unità non si situa alla fine di uno sviluppo, bensì all’inizio di un percorso ed al percorso dà un senso indirizzandolo verso un compimento.  In Europa non ci sono Stati che, ad un certo punto, scoprono la necessità di unirsi anche se non c’è più un nemico comune, come è avvenuto in America. In Europa c’è una sorta di sostrato costitutivo della realtà comune che genera la differenza e la molteplicità, che, in mancanza di una guida o di una governance adeguata, possono produrre conflitti, competitività e guerre. Ma possono farli in quanto  è la rottura di quell’ordine a creare disordine, caos, sofferenza, ingiustizia, involuzioni. E il recupero faticoso di quell’ordine, la rinascita di quell’ordine pur difficile e faticoso è sempre possibile.

Non a caso è  nel De Monarchia che Dante formula una definizione dell’elemento “ dirompente”, che opera tanto nelle vicende personali, quanto in quelle collettive.  Quell’elemento è il “peccato” così come emerge dall’elaborazione dantesca fondata sul pensiero aristotelico e  dalle premesse del pensiero ebraico e cristiano che quel concetto avevano formulato.

“Peccare non è altro che disprezzare l’uno  per tendere al molteplice, come ben intendeva il salmista dicendo: Si sono moltiplicati dal frutto del frumento, del vino e dell’olio. E’ chiaro pertanto che tutto ciò che è bene, è bene in quanto uno.” ( De Monarchia, I, XV).

Il peccato è cioè non l’offesa all’altro, ma il fallimento interiore  che deriva dalla lacerazione di un ordine,  da una auto-negazione, da un auto-contraddirsi che riguarda l’ intimo  della  persona, un modo di rendere la persona “ingiusta” contro se stessa ( potremmo dire una sorta di “suicidio ontologico”). Non è semplicemente un’ offesa che danneggia altri o noi stessi, come il reato.

Questo ordine preliminare è necessario tanto alla vita del singolo, come alla vita sociale.  Senza una norma morale ( che rende possibile il  concetto di peccato) la norma positiva non regge. Essa avrebbe sempre bisogno di imporsi con la forza e con la violenza. La norma positiva ha invece bisogno di una sotto- struttura morale necessaria a farla funzionare. “Le leggi son ma chi pon mano ad esse?”( Purgatorio, Canto XVI)

Oggi nella coscienza collettiva della modernità è invece svanita la differenza tra le due norme,  tra peccato e reato  – essendo il primo considerato un concetto obsoleto e poco “laico”, non come il concetto che attesta l’esistenza di una dimensione morale autonoma da ogni potere umano  – con la conseguenza che, avendo vigore una norma ad una sola dimensione,   si pretende un diritto  che arrivi a normare tutto, dal gioco ai grandi temi della morte e della vita, togliendo respiro e vitalità  al corpo sociale che dovrebbe vivere e non solo funzionare ( Paolo Prodi Homo Europaeus, Bologna, Il Mulino, 2015, p-. 106) e negando nei fatti ogni funzione ordinatrice e attiva alla coscienza, quasi esiliandola dalla realtà, come “congegno antiquato” ( vogliamo mettere la comodità delle direttive della tecno-scienza?).

In Dante invece è chiarissima la connessione tra ordine ( personale e collettivo), gerarchia dei valori, pace universale  e possibilità di realizzare nella libertà le finalità dell’essere umano, evitando il male dato sempre dalla dispersione e dal caos.

Ecco il senso che ha il contesto comune il background culturale collettivo che si chiama Europa e storicamente nasce, in mezzo a drammi e guerre,  per dare vita, per incarnare quest’ordine ideale.  Qualcosa di culturale e di resistibile, certo, non una forza capace di autoimporsi comunque, e dunque purtroppo qualcosa di destinato a cedere, se non è sostenuto dalla mente e dal cuore delle persone. Qualcosa mai acquisito una volta per tutte.

Potremmo definire questa unità originaria centrata sul valore della persona  una sorta di “vincolo interno” ai comportamenti politici, anche a quello dei singoli Stati, l’opposto dei “vincoli esterni” ideati dalla cultura illuminista che affidava l’ordine e la pace al gioco meccanico  degli equilibri di forze, e, prima di tutto, al commercio e alla moneta ( al cambio valutario),  funzionali a piegare le volontà dei sovrani, secondo Montesquieu.

Una unità fondata sulla cultura della persona non può che produrre diversità, e deve imporre limiti e regole agli obiettivi che il potere assume su di sé. Tutto ciò che ha un fondamento funzionale e tecnologico non può essere accolto in quanto tale da chi “pensa europeo”, ma deve sempre esser disciplinato e piegato all’esigenza di ordine funzionale alla persona umana di cui si è detto. Ad esempio il cosiddetto principio di concorrenza non può essere fatto valere come un principio assoluto, sottratto a ogni bilanciamento, omologante o anche solo unificante, non può essere un principio – e tale non è neppure nei Trattati europei-  ma solo un valore o un obiettivo ben delimitato ( ad esempio la concorrenza nell’approvvigionamento di fonti energetiche) da far valere. I

Affermare la concorrenza come principio assolutamente dominante significherebbe  considerare la persona unicamente come consumatore,  utente,  forza lavoro,  individuo autosufficiente e competitivo, o  semplice numero, come avverrebbe se il progresso potesse coincidere con la proporzione qualità-prezzo e con una realizzazione della efficienza e della  economicità. Sarebbe una cancellazione dei connotati essenziali  europei,una distruzione programmata della molteplicità. Eppure a questo ci avviciniamo come dimostra la significativa  sostituzione del concetto giuridico di “territorio” con quello di  una entità volatile e liquida, come lo “spazio” nella giurisdizione europea.

Ancora una volta  emerge così la specificità della unità fondata sulla persona e dunque sulla proporzione e l’equilibrio tra le persone. “ Non basta né un’origine, né un passato europeo per riconoscere uno spirito europeo. Gli Stati Uniti e la Russia hanno tratto le loro premesse dall’ Europa , ma poi sono andati avanti in un’unica direzione, non hanno sviluppato che il ruolo delle masse e quello delle macchine , mentre il vessillo della civiltà europea era  l’ideale supremo dell’equilibrio, della proporzione  e della sintesi. […] Per Denis de Rougemont è l’equilibrio europeo  tra tradizione e innovazione ciò che ha permesso di disciplinare la società tecnologica. L’ Europa aveva i mezzi per creare delle salvaguardie contro l’onnipotenza  della civiltà tecnologica” ( V. Obaton, La promotion de l’identité culturelle européenne depuis 1946, Euryopa, Genève, 1997, p. 52)

E’ l’equilibrio in questione e ciò che è più necessario anche oggi per ricostruire le basi della convivenza europea e per disciplinare la società tecnologica. Al posto di una uniformità livellatrice ( e conflittuale)la  differenza e la molteplicità.

Come ancora nota Auerbach,  “( Per la dottrina tomistico aristotelica) la molteplicità non è posta in contrasto con la perfezione , ma è sua espressione , e inoltre l’universo è inteso non immobile ma in movimento nel senso della autorealizzazione delle forme , così che nel continuo impulso dalla potenza all’atto la molteplicità viene anche elevata a necessaria via della perfezione: e allora nella particolare applicazione all’uomo  che essa trova nella psicologia tomistica , essa diviene il fondamento della tensione drammatico-realistica delle vicende storiche” ( Erich Auerbach, Studi su Dante, cit. p. 77).

E’  questo il senso profondo della realtà umana che a Dante si rivela nella visione da lui identificata nella prospettiva del Paradiso,  inteso come “città” del compimento del destino umano letto attraverso la profondità dell’essenza divina:

“nel suo profondo vidi che s’interna

legato con amore in un volume

ciò che per l’universo si squaderna” ( Paradiso XXXIII)

Senza molteplicità e differenziazione non vi è “progresso” nel senso profondamente umano di perfezionamento. Vi può essere invece “progresso” nel senso di un potenziamento indefinito dell’essere umano, ma entro la prospettiva disumana dello sviluppo senza finalità.

Se ben consideriamo, anche la nascita delle lingue e letterature nazionali in Europa al tempo di Dante è un esempio di diversità o diversificazione promossa da questo contesto unitario.  L’opera italiana di Dante è perciò da celebrare anche come voce europea ( E. Auerbach, Studi su Dante, p. 69)  perché Dante, creando il volgare illustre italiano  promuove questa feconda diversità, che ci accomuna agli altri popoli europei, che contemporaneamente danno vita alle letterature francese, tedesca, spagnola ecc.., creando un plurilinguismo europeo che è, ancora oggi, essenziale come antidoto al falso spirito di unificazione e comunione.

L’idea dantesca di una lingua letteraria e nobile che resta sempre in mutuo rapporto con la lingua quotidiana ( il volgare illustre) in grado di accogliere e di dare ciò che è vivo elemento di  tradizione popolare,  realizza dunque in forme peculiari la de-massificazione del linguaggio, creando una “comunanza nel molteplice, una vera e propria  moderna koinè europea” ( Erich Auerbach, Studi su Dante, cit. p.70).

La pace come finalità della politica ( e della vita umana)

In Dante non esiste ovviamente pacifismo, banale dirlo,  ma piuttosto una vera e raffinata cultura della pace. Il pacifismo, corrente ideale nata con la modernità nel XVIII secolo, postula semplicemente la rinuncia al ricorso alla guerra da perseguire, se non  attraverso l’esempio della testimonianza personale anche eroica,  attraverso obiettivi e strumenti  di vario tipo ( lotta al militarismo, al capitalismo, per alcuni, incentivazione degli scambi commerciali per altri…), ma esso non configura mai la pace se non come assenza di guerra e non come una struttura culturale politica ed antropologica specifica da mettere in campo.

In Dante la pace, che è per lui anche l’obiettivo di fondo di ogni   percorso umano,  l’aspirazione di ogni persona che egli incontra nei personaggi dell’ Inferno e del Purgatorio, culmina nella conquista di una “pace” che non è altro che la realizzazione , ovviamente parziale e difettiva nel mondo terreno, di quell’ ordo amoris  che è il cardine invisibile dell’universo e il senso complessivo della realtà, l’ “amor che move il sole e l’altre stelle”.

L’accordo delle volontà, il confluire delle volontà entro una volontà comune e superiore è il vertice che può raggiungere la persona e ciò cui intimamente essa aspira.

La persona che agisce nella storia per tradurre in realtà questa unità di fondo non può farlo se le libere volontà degli uomini non si incontrano , o meglio se non sono guidate ad incontrarsi, per dar vita a quella concordia   delle volontà umane, che  realizzano il supremo bene comune, che è la “pax universalis”, condizione indispensabile e preliminare di ogni pubblica e privata felicità. Proprio perché la pace intesa in questo senso profondo significa sempre trovare una armonia tra diversi, essa diviene il bene supremo e preliminare a tutti gli altri, la finalità guida di ogni politica, come Dante poteva ben sperimentare vivendo in Italia entro una disperante anarchia feudale.

Sulla priorità della pace infatti Dante è chiarissimo:

“ E’ evidente che il genere umano nella quiete o tranquillità della pace si trova liberamente e facilmente nella sua propria attività, che è quasi divina secondo il detto  “ lo hai fatto di poco inferiore agli angeli”. Quindi è chiaro che la pace universale è la migliore delle cose che sono ordinate alla nostra beatitudine. Perciò dall’alto è stato detto ai pastori, né ricchezze, né piaceri, né onori, né lunga vita,  né salute, né forza, né bellezza, ma pace; disse infatti la celeste milizia: Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra  agli uomini di buona volontà” ( De Monarchia, I, IV, 1-3)

La pace è la condizione di armonia interna e esterna alla persona  diametralmente opposta alla condizione di peccato da cui inizia il percorso del poema: che va infatti dalla “bestia sanza  pace” ( Inferno, I) all’ “etterna pace” dell’empireo ( Paradiso XXXIII).   Una pace che ha come premessa indispensabile quella di essere “frutto della giustizia” che, a sua volta, è resa più salda “dalla carità” ( De Monarchia, I, XI). La condizione paradisiaca è infatti quella in cui la pace è la condizione finalmente conquistata  da persone che hanno realizzato quella perfetta capacità di interagire sentimentalmente e razionalmente, fino al punto di intendersi perfettamente senza parole, e di questo gioiscono e sorridono sempre.

Nella azione politica umana ciò significa lavorare per una cultura politica  che lavora per costruire una realtà sociale e culturale armonica  che considera la guerra  come  un fenomeno alieno dalla ragione umana e  configura certo non una “rinuncia”, ma  un “ripudio” della scelta bellica, come fa la nostra Costituzione.  Il che non esclude però eventualmente il ricorso alla guerra difensiva  cui lo Stato singolo può esser costretto, ma che, in nessun modo, può operare per configurarla come un mezzo accettabile. La guerra non  è in questa cultura un altro modo di fare “politica”, è semplicemente altro da essa, con buona pace di Von Clausewitz.  Non si tratta dunque affatto di utopismo, ma di una concreta e possibile prospettiva culturale.

Il diritto come giustizia

Diritto e giustizia, che noi siamo soliti identificare e spesso sovrapporre, sono dimensioni tra loro distinte e rinvianti a tradizioni diverse, quella latina e quella greca ed ebraica. Diritto (lo  Jus dei romani) è la modalità per garantire, attraverso la tipizzazione dei comportamenti definiti da  una norma, una attività ordinata in quanto conforme a pratiche ritualizzate.  E’ una sorta di geometria, ma applicata alla materia sociale. Giustizia è invece conformità della norma ad un ordine naturale costituito a salvaguardia della persona, o ad una legge non scritta perché trascendente le contingenze storiche o perché attribuita alla divinità. Ius iustitia sono stati poi tra loro collegati nella tarda antichità ma non era così all’inizio.

Oggi sperimentiamo il diritto come pura applicazione tecnica del pensiero ad una data fattispecie, come è naturale in un’epoca in cui il pensiero tecnocratico opera con dati quantitativi ed è incapace di comprendere l vivente e l’umano. Noi oggi abbiamo a che fare, specialmente in tema di  direttive e normative europee con un diritto che si espande in ogni settore della vita umana, promosso  dalle nuove tecnologie, dalla globalizzazione, dalle emergenze ambientali, un diritto che si occupa di ciò che mangiamo, di come ci riscaldiamo, di come costruiamo le nostre case, di come dobbiamo relazionarci coi colleghi sul posto di lavoro, di come possiamo tutelare la nostra “privacy” dai problemi creati dalla tecnologia, per arrivare infine alle questioni della vita e della morte.  In questa dilatazione anomala di campo sta però il problema.

Se il diritto si occupa di produrre norme per tutto, esso  finisce per invadere gradualmente, ma inesorabilmente,  anche la sfera della coscienza e della libertà di coscienza, che dovrebbero  presidiare l’ ambito morale.  La norma morale finisce per essere dettata dallo Stato , dai suoi “tecnici” e dai suoi “scienziati”.  E se il diritto si configura come una espansione o un prodotto della tecnica o della tecno-scienza, che dettano leggi non contendibili e non discutibili dall’uomo comune, il diritto non può che de-umanizzarsi. Infatti non solo si perde  l’idea che l’ordinamento si fonda su una norma che sovrasta tutte le altre e le finalizza ad un  bene comune umano, ma si perde e si esaurisce persino lo spazio del costituzionalismo, dei limiti costituzionali al potere. Si cancella infatti la struttura morale ereditata dal liberalismo ma non  prodotta da lui su cui esso si fonda, per cui, secondo il paradosso di Bockenforde, lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire. E, alla fine del processo, non può che evaporare persino lo  spazio  della umanizzazione sociale e delle politiche sociali.

In Dante viceversa il diritto non è mai separato da quelle finalità umane che sono contenute nella giustizia e nei principi di giustizia. Non a caso il canto XVIII del Paradiso contiene il passo iniziale del libro della Sapienza: Diligite iustitiam qui iudicatis terram , “amate la giustizia voi che giudicate la eterra”( Paradiso, XVIII, 291-93)

Noi in Italia invece ci siamo  abituati cioè all’idea che, in date condizioni, la giustizia, il dare concretamente  a ciascuno il suo, non sia effettivamente sempre possibile. Al principio di giustizia si possono fare eccezioni, magari sostenendole con l’ idea pre-cristana della colpa dei padri che i figli debbono oggi scontare, in nome di un futuro sconosciuto.  Non è certo un caso che in Italia – lo abbiamo visto benissimo nella pandemia ma vale anche oggi e valeva già prima-  la funzione della cura che dovrebbe svolgere il sistema sanitario sia stata completamente surrogata dalla funzione della prestazione, che non si occupa del malato come persona , né mira  alla salute intesa come bene collettivo oltre che individuale, e considera il diritto alla salute come un diritto alla fitness privata e non un essenziale bene relazionale.  Nella prospettiva dell’individualismo e del singolarismo libertario che non combatte le cause sociali del male e non fa opera di prevenzione.   Per cui nessuno forse doveva stupirsi delle frontiere e dei muri ricomparsi nell’est europeo prima che qui ricomparisse il fenomeno bellico nelle sue peggiori forme tradizionali.

Oggi una nuova antropologia produce società escludenti, frammentate e conflittuali, sempre più incapaci di difendere le persone dai nuovi mali globali.   E’ una antropologia che esclude in partenza la “fiducia di fondo”, quella che, per Dante, è un “prerequisito essenziale del diritto” ( Justin Steinberg, Dante e i limiti del diritto, cit.p. 147). E lo fa  in nome del culto della potenza dell’ego o del suo potenziamento che ha surrogato il faticoso perfezionamento personale graduale e razionale, che è stata la vera cifra del “progresso” europeo.

Il diritto, a partire da quello amministrativo, è oggi sempre più globalizzato ed i suoi meccanismi di formazione hanno ormai trasferito la regolazione  dal contesto geo-territoriale  specifico ad uno spazio globale. Qui i nuovi decisori del diritto tecnicamente qualificati , anche se non certo accountable verso i destinatari finali delle decisioni,  gestiscono  la sicurezza mercificando tutto, non solo le persone, rl’acqua, l’aria e la terra  e i pubblici servizi  ma persino il rischio, oggetto di scommessa legalizzata.

Oggi ci imbattiamo in un diritto senza la giustizia, perché è venuto meno il riferimento ai suoi destinatari  concreti, alle  persone,  ed a delle finalità umane, oltre che ad una premessa trascendente, rinviante o no ad una religione. Noi ci contentiamo delle “regole”.   In Dante no,  il diritto non è mai soltanto un insieme di regole che prescrivono o vietano azioni. Esso si qualifica come una “ proporzione  fra cose e persone che intercorre  nei rapporti tra uomo e uomo , la quale, finché resta salda, tien salda la società, quando si corrompe , ne provoca il crollo …. Se il fine d ogni società è il bene comune  dei suoi membri è necessario  che il bene comune sia il fine di ogni diritto , mentre è impossibile che ci sia un diritto  che non abbia per fine il bene comune… ( Le leggi) devono  stringere gli uomini gli uni agli altri in vista dell’ utile comune. Perciò dice bene anche Seneca  quando nel libro Delle quattro virtù afferma che la legge  è il vincolo dell’umana società”( De Monarchia, II, V).  E  non può poi esserci diritto senza giustizia, né giustizia senza carità. “ Poiché tra gli altri beni dell’uomo, il maggiore è quello di vivere in pace e questo bene è frutto essenzialmente della giustizia, sarà proprio la carità a rendere più salda la giustizia e tanto più quanto essa sarà maggiore”( De Monarchia I, XI). (Segue)

Umberto Baldocchi