Quale Pace? – di Domenico Galbiati

Quale Pace? – di Domenico Galbiati

La pace non è un’ ideale astratto. Né può essere considerata – a meno di farne un assunto ideologico – come categoria di giudizio assoluta, che basti da sola a dar conto della storia, di ciò che non è stato e di ciò che potrà o dovrà accadere. E’, piuttosto, un progetto storico concreto che la politica ha l’onere di costruire. Non basta, dunque, invocarla a gran voce.

Oggi a ragione temiamo che si possa cadere in un avvitamento inarrestabile che giunga fino allo scontro nucleare, eppure non dobbiamo dimenticare che, per l’intera lunga stagione del secondo dopoguerra, la pace, secondo la logica della deterrenza, è stata preservata solo camminando quotidianamente sul crinale di una guerra possibile, che nella vicenda dei missili sovietici a Cuba dell’ottobre ‘62 ha avuto il momento di maggior tensione, ma non certo l’unico. Possiamo dire di aver preservato la pace solo a costo di rischiare la guerra e non con le giaculatorie pacifiste.

Ora siamo in presenza di una guerra “bestiale”, nel senso peggiore del termine, condotta con un cinismo disumano, una ferocia fredda ed efferata da far paura. Una guerra insensata che trova in sé stessa la sua ragion d’essere, senza che ne sia stata data nessun’altra che, non dico la giustifichi, ma almeno ne lasci intendere i contorni ed il fine ultimo. La guerra per la guerra è diventata per Putin un personale punto d’onore, la prova d’orgoglio di un impero defunto, condannato dalla storia che vuole rinverdire i suoi fasti, una forma di terrorismo di Stato diretto a sobillare l’ordine internazionale per orientarlo secondo una differente scala di valori.

Non è vero che la Russia – e subdolamente la Cina – studiano come approfittare delle debolezze dell’Occidente, a cominciare da quel relativismo che ne corrode i costumi e la tenuta morale. Piuttosto temono di soccombere alla sua superiorità, a cominciare dall’ambito scientifico e tecnologico ed, in ultima analisi, sanno che gli ordinamenti democratici, per quanto apparentemente più lenti e vischiosi, macchinosi e conflittuali, sono superiori alla struttura autocratica dei loro sistemi politico-istituzionali. Sanno che l’equilibrio interno dei regimi dispotici, per quanto possa apparire tetragono, è per sua natura, fragile, perennemente esposto a sommovimenti sociali che, soprattutto in un mondo globale, sono pur sempre sull’ uscio di casa. Anche per possibili processi mimetici, per cui è necessario demonizzare l’Occidente, anche al fine di prevenire possibili fratture del fronte interno che, peraltro, sono forse più evidenti e preoccupanti viste da Mosca e da Pechino che non dal nostro osservatorio occidentale.

Fallito il blitz di febbraio contro Zelensky ed a favore delle “persone per bene”, care al nostro Cavaliere, Putin non ha alcun interesse alla pace, forse perfino a prescindere dalla situazione sul campo. Se pur potesse vantare un importante successo militare, sarebbe, pur sempre, una via d’uscita dall’empasse della guerra, in larga misura parziale e poco soddisfacente rispetto alle attese. L’unica effettiva chance che gli resta, almeno fino alla prossima primavera, è persistere nel conflitto per cercare di rompere la tenuta morale del popolo ucraino e soprattutto fiaccare il fronte interno europeo ed occidentale. Bisogna che se ne tenga conto, soprattutto da parte di chi immagina percorsi di pace contorti e sorretti da una sostanziale ambiguità nei confronti della resistenza ucraina. E qui, infatti – nella resistenza ucraina – sta il punto, il nodo inaggirabile che merita parole chiare. Se quella ucraina per Putin non è guerra, bensì spedizione punitiva nei confronti di un Paese che tiene pericolosamente accesa la fiaccola della democrazia a ridosso dei suoi confini, per l’Ucraina è lotta di resistenza armata e come tale va sostenuta, perfino al di là delle ragioni di una “realpolitik” per la quale molto evocano Kissinger, quasi si trattasse di un profeta disarmato.

Alla “resistenza” vanno sempre riconosciute ragioni morali ed anche chi non volesse giungere a tanto, non può, in nessun modo, negarle il diritto di essere di essere contemplata come momento di attestazione di quel diritto internazionale che è fondato su valori di libertà, cooperazione e pace. Che poi che quella Ucraina sia davvero lotta di resistenza – e non una guerra per procura, combattuta in conto terzi – lo dimostra la tenuta del fronte interno e quella salda determinazione popolare che finora non ha conosciuto smagliature. Ne consegue che l’impegno bellico degli ucraini dev’essere sostenuto, anche militarmente, finché accettano di non decampare dal loro sacrificio. Il resto sono chiacchere, per quanto non si debbano chiudere gli occhi circa i multiformi interessi che si intrecciano attorno al conflitto.

Com’è stato, almeno fin qui, autorevolmente affermato dalle nostre più alte cariche istituzionali, una pace ingiusta – e tale sarebbe se avvenisse a scapito della libertà, dell’ indipendenza e della stessa integrità territoriale dell’Ucraina – non sarebbe altro che un prolungarsi strisciante della guerra, destinato a rendere sempre più purulenta la ferita che Putin ha inferto al cuore dell’Europa.

Vanno guardate con sospetto le posizioni ambigue, volutamente ambivalenti di chi afferma di voler sostenere l’Ucraina e, nel contempo, ritrarsi dall’ invio di armi. Così per le tesi improponibili e, in un tale contesto, francamente cervellotiche di chi proponendo al popolo ucraino una resistenza morale e disarmata, di fatto – lo voglia o meno – lo consegnerebbe alla furia devastatrice del despota russo.

Domenico Galbiati