Maggioranza e opposizione: il momento della responsabilità – di Domenico Galbiati

Maggioranza e opposizione: il momento della responsabilità – di Domenico Galbiati

In un sistema democratico in cui maggioranza ed opposizione, anziché delegittimarsi reciprocamente in una contrapposizione pregiudiziale, riconoscano i rispettivi ruoli e, al di là del fisiologico conflitto, conservino ambedue l’orientamento al “Bene comune”, l’opposizione può essere immaginata come un alettone che, scaricandogli sopra il proprio carico aerodinamico, per un verso appesantisce il veicolo in corsa, ma, nel contempo, ne incrementa l’ aderenza al suolo, impedendo che l’avantreno del mezzo si sollevi in un impeto e diventi talmente instabile da renderne problematica la guida.

Vuol dire che c’è, tra maggioranza ed opposizione, una alterità di funzioni e di responsabilità che pure si inscrive, se ci si parametra sull’ interesse generale del Paese, in una reciprocità, tale per cui il ruolo della seconda diventa essenziale in vista di un equilibrio generale, in carenza del quale anche la maggioranza rischia di smarrire la sua stella polare. La funzione di controllo che compete all’opposizione se viene condotta non all’ arma bianca, ma rispecchiando tempi ed argomenti di un disegno alternativo, di fatto concorre, sia pure indirettamente, ad una funzione di indirizzo.

Le opposizioni, pertanto, non devono attendere e sperare che la maggioranza vada a sbattere – se mai ci pensa Berlusconi – ma piuttosto che governi. Per due motivi. L’emergenza è tale per cui l’Italia va ad ogni modo governata e gli elettori del centro-destra hanno il diritto di verificare “de visu” l’opportunità della loro scelta o, al contrario, ricredersi. Si sono assunti, bontà loro, l’ onere di imprimere al Paese un vistoso colpo di barra a destra ed è giusto che ne raccolgano i frutti, buoni o cattivi che siano.

In secondo luogo, se questa svolta a destra, come molti sostengono e comunque si sia verificata, è di portata storica, non può essere derubricata a scherzo del destino, bensì compresa come una istanza o un bisogno che sta – qualunque sia il distretto anatomico cui riferirla: la pancia, la testa, il cuore o altro – nel corpo vivo del Paese.
Mossa, cioè, da una necessità intrinseca che può essere superata, non negandola o soffocandola nella culla, cosicché vi sia chi continui a coltivarne la nostalgia, bensì consentendole di sviluppare il suo percorso, in modo da esaltarne le potenzialità, ammesso che ve ne siano, oppure mostrandone l’inconsistenza.

Insomma, si batte la destra solo con un forte progetto alternativo di cui le attuali opposizioni non sembrano capaci e, dunque, da costruire. La si batte non solo sul piano parlamentare, ma nel contesto civile ed in quella cultura diffusa che ne rappresenta l’humus. Alla fin fine, quando giunge agli snodi essenziali, la politica – per quanto possa essere mal condotta – pretende e riscatta la sua funzione, nel senso che mostra in filigrana, come la sua intelaiatura sia, in ultima istanza, di carattere etico ed antropologico, non possa, cioè, sfuggire ad una declinazione del suo fondamento che non sia riconducibile ad una visione complessiva, ad un qualche umanesimo.

Il confronto è sempre, in primo luogo e per quanto non sia immediatamente evidente, tra culture, cioè tra l’una e l’altra o ancora l’altra autocomprensione di noi stessi, tra differenti concezioni della vita e della storia che dalla loro radice profonda, per quanto in modo inapparente, si proiettano in questo o quell’ altro impianto di cultura politica. Insomma, non va sottovalutata la Meloni e tanto meno il “momento” che rappresenta.

La partita è aperta e la posta in gioco non è tanto o solo il governo Meloni come tale, ma la capacità o meno della destra di stabilire una egemonia culturale, la facoltà che sia essa a fornire, ad una società liquida e distratta, le categorie necessarie ad interpretare e connotate la fase storica che viviamo. Il primo tempo della partita si gioca sulla considerazione che il nostro Paese ha di sé stesso.

La stessa collocazione internazionale dell’Italia si colora di tonalità differenti se ci concepiamo in chiave nazional-sovranista, accompagnata dal congruente populismo piuttosto che effettivamente aperti a quella dimensione europea che necessariamente, ove fosse compiutamente sincera, esigerebbe il riconoscimento di una sovranità di ben più ampio ed alto rango.

Popolarismo versus populismo: è questa la prima giocata da sostenere. E’ possibile enucleare dal mondo sgranato della “gente” o dalla “massa” la nozione e la consistenza di un popolo? Il populismo sovranista – surrogato o addirittura caricatura della vocazione “popolare” smarrita – può essere riassorbito oppure è incontenibile, fenomeno di entropia sociale destinato a crescere ineluttabilmente, quale “cifra” caratteristica del nostro tempo ?

In verità, il populismo coniuga la realtà al passato, è un crocicchio di paure, di diffidenze e di sospetti, rappresenta un antro protettivo entro cui rannicchiarsi sulla difensiva, segnala un sentimento di rassegnazione e di sfiducia, vive di riflesso nell’ ombra di un capo che sia rassicurante. Al contrario, quel percorso di condivisione e di empatia sociale che riassorbe la liquidità del contesto civile, genera coesione e favorisce un nuovo sentimento di reciproca appartenenza, consolida comuni valori di riferimento, segnala una “comunità di destino”, cioè ricrea quella “condizione popolare” in cui si rispecchia una identità collettiva, si ottiene solo rovesciando in avanti il vettore temporale che il populismo punta a ritroso.

Si può ricostruire un “popolo” come soggetto attivo del processo storico solo riproponendo fiducia in un futuro ancora possibile, rincorrendo una speranza, vivendo l’ attesa di un arricchimento della propria umanità, riscoprendo la passione smarrita per tutto ciò che è più autenticamente umano. Si tratta di un compito che trascende la politica, la precede e la accompagna e che pur da essa attende un concorso irrinunciabile.

Domenico Galbiati