I migranti morti nel Mediterraneo: una sfida alla coscienza – di Domenico Galbiati
Ancora sacrifici umani in mare. Bambini morti in modo orribile, di sete, nelle braccia di genitori impotenti.
Dovremmo chiederci come questo stillicidio di morte, rovesciato nelle nostre case con tale frequenza, rischi di immunizzare la nostra coscienza e di renderla refrattaria alla violenza. Eppure, il fenomeno migratorio resta sostanzialmente ai margini del confronto elettorale, come se lo si volesse esorcizzare. Pare sia stato l’ argomento sul quale le posizioni di Letta e della Meloni si sono distinte con maggior vigore nel confronto a due che hanno sostenuto al Corriere.
Eppure, ambedue danno qualche indicazione di buon senso, si appellano giustamente alla dimensione europea della questione. Ma entrambi sembrano circumnavigarla, senza cercare un approdo, una testa di ponte da cui avventurarsi, davvero, dentro la giungla di un fenomeno che segna profondamente – molto più di quanto siamo disposti ad ammettere – il nostro tempo e va affrontato con lungimiranza, secondo una strategia che, fin d’ora, sia dipanata su tempi lunghi. Camminiamo ineluttabilmente verso la creazione di società multietniche.
Possiamo cercare di rallentare il cammino o addirittura di deviarne il percorso, ma la strada è tracciata in quella direzione e faremmo bene ad esserne coscienti fin d’ora. Basterebbe osservare gli impietosi indici demografici dei nostri Paesi e quelli dei Paesi africani. Del resto, dopo la pandemia e la guerra bisogna addestrarci ad un pensiero che abbracci contesti intercontinentali, che fin d’ora alludano a poteri ed istituzioni che vadano oltre la geopolitica tradizionale.
L’Europa, in modo particolare, non può regalare l’Africa alla Cina, ma deve, in un certo senso, adottarla, sostenerne, secondo una postura che rovesci l’antica logica coloniale, lo sviluppo, aprendosi ad un processo di reciproca fecondazione tra le rispettive culture. L’ Europa è stanca e rischierebbe di ridursi ad essere una sorta di “parco delle rimembranze” , sia pure di una storia nobilissima ed antica, se non sapesse trarre dal suo enorme patrimonio culturale e civile motivi di ispirazione e di confronto con altri mondi. Cominciando, come suggeriscono la sua storia e la stessa geografia, dal concepire una sorta di aggregato “euro-africano” che abbia nel Mediterraneo il suo baricentro.
E’ necessario che la consumata dialettica “est-ovest” sia attraversata da un verticale “nord-sud” che vedrebbe, del resto, nell’Italia un protagonista privilegiato. Ad ogni modo, la posizione che oggi la Meloni esprime è frutto di una inversione di rotta talmente vistosa e repentina da risultare più che sospetta, opportunistica e, cioè, non ritagliata su una valutazione, anzitutto, del carico di sofferenza che le migrazioni testimoniano, su una inderogabile istanza di giustizia e di solidarietà, bensì sulla necessità di mostrare la propria immagine meno stridente con il ruolo di governo cui aspira.
In effetti, al di là del fatto, ad esempio, che le proposte in ordine all’acquisizione della cittadinanza possano essere più avanzate o più prudenti, reticenti e controverse oppure addirittura di netta contrarietà’, pare vi sia, magari nascosta, una difficoltà o una remora che prende, sia pure in diversa misura, tutte le forze politiche. E’ come se avvertissero in sé stesse, nei loro gruppi dirigenti e nei loro apparati, soprattutto nei rispettivi elettorati, a prescindere dalla collocazione politica, quel brivido sottile che dà il “diverso”.
Si tratta, secondo varie declinazioni, di un’ avversione o almeno di un timore, di una diffidenza o di un fastidio, almeno di una cautela, di quel po’ di distacco che sembra prudente conservare comunque a fronte di un’ “alterità”, che poco o tanto, ci interroga. Non si tratta di razzismo, né di xenofobia, ma di un atteggiamento psicologico comprensibile che, però, può andare incontro a due contrapposti processi evolutivi. Si dissolve non appena si stabilisca un rapporto diretto con la singolarità di una persona, con la sua storia, i suoi dolori, le sue ansie in cui riconosciamo le nostre e, quindi, il crisma della stessa umanità. Oppure questo sentimento può essere coltivato ad arte e manipolato, secondo una dinamica elementare da cui può prendere il via una spirale inarrestabile di avversione preconcetta e di ostilità.
Gli stati d’ animo, le emozioni, gli abiti mentali di un collettivo non sono lontani da quelli che ciascuno vive nella propria particolarità. In altri termini, per affrontare le migrazioni senza timori ed in modo politicamente appropriato, bisogna entrare in un’altra dimensione.
Oggi, comunque la si metta, noi avvertiamo i migranti un po’ come degli invasori, cui guardare, bene che vada, in modo circospetto. O almeno degli infiltrati, sì nel territorio, ma soprattutto nella cinta muraria delle nostre consuetudini, dei costumi che accompagnano le nostre certezze, dei criteri di giudizio che ci trasmettiamo acriticamente da una generazione all’altra, dei pregiudizi che abbiamo assorbito, quasi senza avvedercene. Per questo è facile dipingerli come degli intrusi e trasformarli, ad arte, in usurpatori da cacciare.
A colui che, per qualunque motivo, avvertiamo “diverso”, guardiamo, quasi sempre, con un certa connaturata apprensione. Lo si avverte in modo più spiccato in un altro campo, osservando le reazioni che molti manifestano nei confronti di chi, avendo un disturbo mentale, viene percepito come fosse contagioso. In effetti, questo succede perché evoca in noi, sia pure senza tematizzarla concettualmente, l’ oscura, latente consapevolezza di uno scacco alla nostra identità, sempre possibile.
Su un altro piano succede così nei confronti dei disabili oppure di chi, per qualche motiva, sia visibilmente, deviante dalla “norma”. Si tratta di un riflesso che, a suo modo, scatta anche nei confronti dei migranti , per cui è necessario anche favorire processi educativi, itinerari culturali che invertano la logica oggi dominante e ci consentano di considerare le migrazioni come flussi di popolazione interni ad un contesto territoriale che cerca un sua omogeneità.
Domenico Galbiati