Qualche domanda sullo Ius Scholae- di Natale Forlani

Qualche domanda sullo Ius Scholae- di Natale Forlani

(pubblicato su www.politicainsieme.com)

Qualche domanda:
– è vero che i minori stranieri sono discriminati rispetto ai coetanei italiani?
– è vero che devono aspettare il compimento dei 18 anni per diventare cittadini italiani?
– è vero che i minori stranieri che frequentano le nostre scuole si sentono italiani?
Ebbene, nessuno di questi presupposti che orientano la proposta di legge sullo ius scholae risulta fondato.
L’analisi del fenomeno dei minori stranieri e dell’impatto della proposta del Partito Democratico ( rilascio della cittadinanza ai minori nati o residenti in Italia prima dei 12 anni e che hanno frequentato almeno un ciclo dell’obbligo scolastico) è contenuta in un mio articolo del luglio 2021 che segue e che mantiene viva la sua attualità.

Sull’onda dei successi ottenuti alle Olimpiadi dagli atleti italiani di colore, il tema della cittadinanza italiana per i minori stranieri nati in Italia (ius soli)è tornato in auge nel dibattito politico, e riproposto dal Segretario del Pd Enrico Letta come un obiettivo da realizzare in Parlamento nel corso dell’attuale legislatura. In questa sede non intendiamo partecipare al dibattito sulla legittimità o meno di questo obiettivo, se corrisponda in questa fase alle priorità che dovrebbero essere attenzionate dal Parlamento, e tantomeno prendere parte nelle polemiche che hanno accompagnato la proposta. Vogliamo offrire un modesto contributo di analisi del problema e semmai smentire alcuni luoghi comuni che hanno preso corpo nel dibattito politico, e nella pubblica opinione, che non sono confortati dalle evidenze giuridiche e dai numeri del fenomeno.

Una premessa è comunque doverosa. Al di là delle legittime opinioni sull’opportunità di riconoscere sulla base di alcuni requisiti minimi la cittadinanza per i minori nati in Italia da genitori stranieri (nella proposta del Pd sulla base del permesso di lungo soggiorno per almeno un genitore e della frequentazione di un ciclo scolastico obbligatorio), i diritti di tutti i minori stranieri nel nostro Paese sono del tutto equiparati a quelli dei minori autoctoni. Con l’ovvia esclusione dei diritti di voto e di espatrio, che non sono previsti nemmeno per quelli italiani. Per i minori stranieri non accompagnati, la legislazione vigente prevede d’ufficio le tutele e le forme di assistenza previste per quelli italiani in condizioni di disagio.

Il rilascio della cittadinanza italiana per gli stranieri che la richiedono continua a essere regolato dalla legge n. 91 del 1992 (legge Martelli), adottata in un periodo in cui la popolazione straniera residente in Italia era assai limitata. Secondo la legislazione richiamata, ispirata alle legislazioni vigenti negli altri Paesi europei, il rilascio della cittadinanza può avvenire, oltre che per il matrimonio contratto con un cittadino italiano, dopo 10 anni di residenza continuativa in Italia (4 anni per i cittadini comunitari). Per i minori stranieri la possibilità di ottenere la cittadinanza italiana è essenzialmente legata a tre possibilità: l’acquisizione automatica in relazione all’ottenimento della stessa da parte di un genitore, la richiesta da parte dell’interessato entro un anno dal raggiungimento della maggiore età, sulla base di requisiti ordinari di residenza e delle altre condizionalità (lingua italiana e reddito minimo) nei casi residuali.

L’incremento del numero delle cittadinanze italiane rilasciate è stato particolarmente consistente nel corso dell’ultimo decennio. Un’accelerazione recente per via dei tempi di maturazione dei requisiti da parte di una popolazione straniera che si è quadruplicata nel corso degli anni 2000. L’Italia risulta al vertice dei Paesi europei per numero di cittadinanze rilasciate agli stranieri negli anni recenti. La quota delle cittadinanze che ha riguardato la componente dei minori si attesta intorno al 35% di quelle totali.

Le potenziali ricadute della legge 91/92 trovano un minor riscontro nella realtà per l’influenza di alcuni fattori. A partire dall’impossibilità di detenere una doppia cittadinanza per una quota significativa degli stranieri aventi diritto per via delle norme vigenti in circa 40 Paesi di origine che lo vietano. Una condizione che comporta una serie di problemi nella gestione dei nuclei familiari interessati a delle relazioni con i parenti nei Paesi di origine (la cittadinanza per i minori nati in Italia costituirebbe in tal senso un’ulteriore complicazione). O più semplicemente per via dei sentimenti di appartenenza verso il Paese di origine delle prime generazioni. Come ricordato in precedenza, per la componente dei cittadini comunitari, circa il 30% della popolazione straniera residente, il requisito della residenza viene ridotto in modo consistente, e, dato lo status di cittadino comunitario, è del tutto ininfluente sul piano dei diritti civili e sociali.  

Sul piano pratico, l’approvazione della legge comporterebbe un’anticipazione di due-tre anni per l’ottenimento della cittadinanza italiana, per un potenziale di circa 300 mila minori, rispetto a quello che potrebbe avvenire spontaneamente sulla base delle norme vigenti. La tesi dei sostenitori dello ius culturale fa leva su un presunto sentimento di comune appartenenza, di un cosmopolitismo in via di fatto, che accomunerebbe le giovani generazioni italiane e straniere. A tale proposito l’Istat ha svolto una specifica indagine, pubblicata nel 2020, su un campione nutrito di 68 mila minori che frequentano i cicli scolastici. Tra questi, solo il 38% dichiara si sentirsi italiano (il 46% tra i minori rumeni dove la richiesta di cittadinanza, tra l’altro, è molto contenuta), mentre all’opposto il 33% sente prevalente l’appartenenza alla comunità d’origine (il 53% tra i ragazzi nati all’estero, vicino o superiore al 40% tra i minori cinesi, filippini e di altre comunità asiatiche e sudamericane). Il 15% desidera il ritorno nel Paese di origine dei genitori, il 42% tiene aperta la possibilità di andare in un altro Paese. L’aspirazione alla cittadinanza italiana è più elevato nelle comunità di origine che hanno una rilevante presenza storica (Marocco e Albania) e in quelle del nord e centro Africa.

Il panorama risulta pertanto assai più variegato rispetto alla presunta omogeneità del fenomeno, analogamente a quanto avviene per le caratteristiche dei percorsi di integrazione delle diverse comunità d’origine degli immigrati.

Il tema dello ius soli sportivo, che ha riscosso una particolare attenzione per le richieste avanzate dal Presidente del Coni Malagò, è stato oggetto di uno specifico intervento legislativo nel 2016 per consentire l’iscrizione dei minori stranieri alle società sportive e la loro partecipazione ai campionati nazionali. L’interesse prospettato dal Presidente del Coni attiene la possibilità di semplificare i requisiti e accelerare i tempi di rilascio della cittadinanza italiana al raggiungimento della maggiore età degli atleti per consentire loro la partecipazione alle competizioni internazionali in rappresentanza della nostra nazionale (ad esempio, sulla base del requisito della durata temporale dell’affiliazione alle federazioni nazionali). Un tema che può essere risolto in modo pragmatico, senza trascurare che le federazioni internazionali non vedono di buon occhio le pratiche del rilascio delle cittadinanze facili per lo scopo di potenziare in modo artificiale la competitività dei team nazionali e delle diverse compagini sportive.

Non è certamente uno scandalo cercare di migliorare e attualizzare una legge sulla cittadinanza del 1992, ad esempio riducendo il requisito temporale della residenza sulla base dei comportamenti virtuosi di integrazione civile, scolastica e lavorativa, con una particolare attenzione ai percorsi di integrazione delle seconde generazioni. Ma è francamente difficile comprendere a che titolo la proposta dello ius soli per i minori stranieri nati in Italia, e la pretesa di separare l’ottenimento della cittadinanza da quello dei genitori che rimangono responsabili del percorso di integrazione del nucleo familiare, debba essere assimilata a una legge di civiltà.

Infatti, molti dei sostenitori non fanno mistero di considerarla a tutti gli effetti come una sorta di prerequisito del percorso di integrazione anziché il logico completamento. Un modo legittimo di interpretare le politiche per l’immigrazione e di accoglienza, non di rimediare a presunte discriminazioni.

Natale Forlani