Ma i cattolici devono fare una scelta “netta” per la guerra? – di Giancarlo Infante

Ma i cattolici devono fare una scelta “netta” per la guerra? – di Giancarlo Infante

Con un pezzo che fa onore alla sua capacità di sintesi, anche su temi complessi, Antonio Polito è intervenuto su Il Corriere della sera per sostenere che i cattolici democratici hanno fatto delle “scelte nette” sulla guerra in Ucraina, anche sulla base della distinzione “tra pace e pacifismo” elaborata da tempo dalla cultura cattolicodemocratica.

Ora c’è da rendersi conto che i giornali seguono delle linee editoriali e che i giornalisti devono pure fare i conti con la tirannia dello spazio. In particolare, in giornate tanto ricche di avvenimenti come quelli che ci presenta la guerra d’Ucraina. La necessità di dare un senso compiuto al ragionamento rischia così di far perdere qualcosa, magari anche di piuttosto importante, che diventerebbe poi necessario recuperare.

Mi riferisco ad una parte dell’intervento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, cui fa riferimento Polito, a mio avviso fondamentale da ricordare nella sua interezza. Con quella parte contenente il richiamo allo spirito di Helsinky che consentì l’avvio di un superamento della Guerra fredda e fece parlare di cooperazione, piuttosto che di scontro, tra Russia ed Occidente. Uno spirito che si è perso per strada ed è questo uno dei principali motivi per cui ci troviamo a vedere volare missili, alla distruzione delle terre d’Ucraina e ad un drammatico, quanto inutile, spargimento di sangue.

La fermezza, dunque, deve avere una prospettiva e a questa devono essere subordinati anche quegli interventi di sostegno al popolo ucraino destinati a ristabilire il diritto internazionale e a garantire, anche agli ucraini, il diritto all’autodeterminazione. C’è così bisogno di una risposta “forte”.  Ma c’è da chiedersi se essa non possa essere “diversa” da quella – che nonostante le apparenze potrebbe rivelarsi invece molto debole, e in particolare politicamente debole – sinora ritenuta più appropriata dalla maggioranza dei governi occidentali. Essa, infatti, si è fermata a quella che potremmo definire una risposta “tecnica” che limita la nostra azione all’invio a Kiev di “armi” non meglio specificate, ma minacciosamente “secretate”. Occorre, insomma, una risposta che sia “forte” perché figlia di una linea politica. Che non appaia un semplice adempimento burocratico, bensì in grado di prefigurare, e preparare, uno sbocco in grado di portare ucraini e russi, e noi con loro, oltre il conflitto armato.

A questa alternativa tra risposta “forte”, diversa da quella “debole”, ha fatto un esplicito riferimento, per combinazione quasi in contemporanea con l’uscita dell’articolo di Polito, il Segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin: “Una risposta forte è una risposta che intraprende, cercando di coinvolgere tutti, iniziative secondo lo schema di pace, cioè iniziative per fare cessare i combattimenti, per arrivare a una soluzione negoziata, per pensare a quale sarà il possibile futuro di convivenza nel nostro Vecchio Continente”. Per giungere alla soluzione negoziata – ha aggiunto il Segretario di Stato – si devono abbandonare le precondizioni” (CLICCA QUI).

I cattolici, quindi, vanno oltre la dicotomia “armi sì, armi no” ed oltre quella tra passione per un pacifismo generico o, all’opposto, l’accettare pienamente la legge del più forte.

La Pace, a partire dalle condizioni minimali per ricercarla, e cioè un cessate il fuoco, che ad esempio consentirebbe la possibile entrata in campo delle Nazioni Unite, va costruita: nessuno ce la regala. La si costruisce, certo restando fermi sulla difesa dei diritti dell’Ucraina, ma anche individuando, e proponendo alla luce del sole, un percorso di cooperazione e di dialogo giacché sappiamo che una soluzione non è impossibile da trovare. E bene lo potremmo confermare noi italiani, se solo si guarda a come vennero risolti i problemi del nostro Alto Adige.

Da un lato, c’è un aggressore che, sovente con arroganza, tiene a ricordare le proprie ragioni e l’accerchiamento in cui si sente stretto e, quindi, il dover riconoscere il pieno e inequivocabile diritto dell’aggredito a difendersi. Dall’altro, c’è il ripudio della violenza in assoluto, e in particolare quando questa diviene fatto collettivo e colpisce indiscriminatamente in ogni direzione, a partire dalle popolazioni inermi. E c’è ancora la constatazione sulle tante responsabilità che molti degli attori oggi in campo si sono assunte per anni ed anni perché hanno fatto mancare un intervento risolutore ed impedire che la situazione giungesse agli sbocchi più estremi.

Non c’è dubbio alcuno che la Russia abbia violato il diritto internazionale che si basa, e garantisce, l’autodeterminazione di tutti i popoli e la loro necessità di vivere entro confini sicuri. Non c’è dunque scusante alcuna per l’invasione del paese vicino. Le vicende di questi due mesi, però, sono figlie anche della mancata applicazione degli accordi di Minsk da parte di Kiev, e questo Zelensky se l’è trovato in eredità, e dalla mancata attenzione alla pentola che stava per scoppiare da parte degli occidentali.

La guerra, comunque, ha sviluppato, e non poteva essere altrimenti, una congerie di sentimenti che inevitabilmente tendono a creare campi contrapposti. I quali finiscono per dilatare ed estremizzare le posizioni, non a mitigarle.

Giancarlo Infante