Le “terre rare” e il futuro dell’Africa

Le “terre rare” e il futuro dell’Africa

Il momento storico che stiamo vivendo porta con sé le facce negative del capitalismo e, attualmente, tutte le attenzioni sono rivolte a Est, ma io vorrei andare a Sud.

Le “terre rare”, a discapito del nome che non vuol dire che sia difficile trovarle in natura, ma per il fatto che siano rarefatte cioè di ridotta densità, sono 17 elementi che fanno parte di un gruppo di minerali fondamentali per una serie di tecnologie, che analizzeremo nello scorrere del testo, utilizzati per questa famigerata transizione energetica meglio conosciuta a livello mondiale come. Hanno nomi difficili da ricordare a memoria e sono classificati come metalli, ovvero Lantanio, Cerio, Praseodimio, Neodimio, Samario, Europio, Gadolinio, Terbio, Disprosio, Olmio, Erbio, Tulio, Itterbio, Lutezio, Ittrio, Promezio e Scandio. Ovviamente questi minerali non crescono sugli alberi e bisogna aprire delle cave che contengano una parte di essi, i quali sono associati anche ad altri elementi tipo il silicio e il gallio per citarne solo un paio.

Senza entrare troppo nel tecnico per non annoiare il lettore, ci sono degli studi molto dettagliati in merito che vale la pena leggere per chi come me sia un grande appassionato di materiali. Dopo il processo di estrazione dalle cave bisogna trasportare grandi quantità di prodotto grezzo alla raffineria dove acquistano, successivamente al trattamento che prevede un uso elevato di acqua e solventi chimici (cercate su internet: il lago nero di Baotou), proprietà magnetiche, ottiche, luminescenti ed elettrochimiche insostituibili in una varietà di applicazioni industriali. La loro produzione, tuttavia, richiede ingenti investimenti.

La Cina possiede il 90% del mercato globale avendo al suo interno miniere, raffinerie e fabbriche per costruire il prodotto finito. Pechino domina anche la produzione e nel 2021 ha estratto 168.000 tonnellate di ossidi di terre rare su un totale globale di 280.000 tonnellate. La maggior parte del restante della produzione è divisa principalmente tra Stati Uniti, Myanmar e Australia.

Ma veniamo nel dettaglio all’uso finale di questi elementi che sono e saranno indispensabili per alcune tecnologie strategiche nel panorama tecnologico. In ordine sparso: turbine eoliche, dispositivi elettrici senza fili, auricolari, casse acustiche, lampadine a led, fibre ottiche, schermi LCD e al plasma, veicoli elettrici e ibridi, magneti permanenti, convertitori catalitici, telecamere, batterie e supercondensatori, missili teleguidati, radar e occhiali per la visione notturna. La lista è lunga e comprende anche il silicio, come precedentemente menzionato, il quale è fondamentale per costruire i pannelli fotovoltaici. Sicuramente alcune di queste tecnologie sono estremamente utili per la nostra società, come i radar degli aeroporti che permettono, in simbiosi con il transponder degli aerei, di far atterrare un velivolo jet di grandi dimensioni anche in condizioni di scarsissima visibilità, oppure i laser per interventi chirurgici di altissima precisione, ma altre sono solo per puro intrattenimento o peggio ancora per fare la guerra.

Che cosa c’entra in tutto questo l’Africa? C’entra eccome perché, come si evince da un rapporto della Banca di Sviluppo Africana (CLICCA QUI), il continente africano sarà quello che avrà le potenzialità maggiori di diventare un grande esportatore di Terre Rare a livello mondiale. Attualmente non vi sono grandi investimenti come per altre risorse ed esiste una sola miniera attiva e produttiva in Burundi, ma le esplorazioni sono in atto nelle zone che vanno dall’Uganda passando per tutta la costa orientale fino al Sud Africa e alla Namibia. Si è parlato a livello di Commissione Europea che verranno inflitte delle sanzioni a quelle aziende che non dichiarino tutto il percorso della filiera come succede per il legname che deve essere tagliato in loco prima di essere esportato. Ma io mi chiedo come faranno certi paesi africani a sviluppare un’industrializzazione per garantire una “supply chain” tracciata in quanto ancora oggi le miniere di rame, oro e altri minerali come il cobalto vengono scavate a mano soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo.

Ancora una volta l’Africa avrà bisogno di know-how straniero e i governanti verranno a cercarlo in Europa, come è accaduto ultimamente durante un viaggio diplomatico in Italia della Ministra dell’Energia ugandese cercando partner per costruire una fabbrica di auto elettriche in Uganda. Non saprei dire con certezza se queste tecnologie <> salveranno realmente il pianeta Terra, ma voglio rispolverare un vecchio progetto che la ong Cesvitem (CLICCA QUI) aveva implementato in Mozambico anni fa e purtroppo concluso a causa del partner che lo aveva preso in gestione. Si trattava di coltivare delle Alghe marine che non fossero invasive dal punto di vista biologico, ma che potessero fornire un elemento che potrebbe essere fondamentale per una vera transizione ecologica. Infatti le alghe possono essere usate in tantissimi settori: nell’industria alimentare, nella cosmetica e igiene personale, cellulosa per la carta, bioplastiche, biodiesel, mangime per gli animali e addirittura le alghe potrebbero riscaldare le nostre case.

Bisognerebbe diversificare la produzione in tutto il mondo instaurando una costante collaborazione con i centri di ricerca e i Politecnici per poi creare una vera rete commerciale, potrebbe creare impiego per tantissime persone generando un reddito da investire anche in altre attività come la pesca o l’agricoltura. Utopia? Sta ad ognuno di noi prendere atto di questo e avere la consapevolezza delle proprie azioni che commettiamo quotidianamente.

Andrea Simoncini