Quando muoiono gli Ambasciatori -di Giuseppe Sacco

Quando muoiono gli Ambasciatori -di   Giuseppe Sacco

All’alba di lunedì 6 settembre 2021 – poco più di una settimana fa –, le agenzie di stampa, sia cinesi che tedesche, hanno dato grande spazio alla notizia che l’Ambasciatore tedesco presso la Repubblica Popolare Cinese, Jan Hecker, era stato trovato morto nella sua residenza di Pechino. Era stata, pare, una morte improvvisa, avvenuta durante la notte precedente, le cui cause non sono state precisate neanche nei giorni successivi; quando anzi – stranamente – non ci sono state, neanche on line, nuove informazioni sulla vicenda.

A far sollevare più di un sopracciglio è stata ovviamente la giovane età – 54 anni – di questa non secondaria personalità della Repubblica Federale, che il quotidiano di Monaco, la “Suddeutsche Zeitung” ha definito Manager der großen Krisen, e che era infatti il responsabile dei maggiori dossiers della politica estera tedesca.
Ma a far nascere qualche interrogativo è stato soprattutto il fatto che la sua brutale scomparsa sia avvenuta solo due settimane dopo la sua investitura nell’incarico che avrebbe dovuto svolgere presso le autorità cinesi.  E poi, perché si tratta di una perdita che tanto l’Ausvartiges Amt, il Ministero degli Esteri tedesco, che la Cancelliera Angela Merkel personalmente hanno immediatamente pianto come assai grave, con toni che erano molto probabilmente sinceri.
Perpetuare la linea Merkel

an Hecker non era infatti un diplomatico come tanti altri; anzi non era neanche un diplomatico in senso stretto, cioè non era un diplomatico di carriera. Era un giovane ma già noto accademico, ed un giudice molto interessato alla politica internazionale. E che per la sua evidente competenza era asceso ad una posizione di grande potere, diventando uno dei massimi consiglieri della Merkel in politica estera.

Tra le sue competenze, Hecker era stato responsabile di missioni diplomatiche molto complesse, delicate come i negoziati tra Russia e Ucraina sul conflitto nel Donbass, l’Ucraina orientale. E quando il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, e la Cancelliera Angela Merkel si sono incontrati di persona per il loro primo colloquio bilaterale al vertice del G7 in Cornovaglia lo scorso mese di giugno, le foto hanno mostrato Hecker come una delle pochissime persone sedute al tavolo negoziale.
Un personaggio importante, insomma. Tanto che alla sua recente nomina come Ambasciatore a Pechino, dove era sbarcato solo il 1 Agosto (e rimasto in quarantena per due settimane, tanto che le credenziali erano state presentate solo il 22), era stato attribuito un forte significato anche relativamente al quadro politico nazionale. 
 
La scelta caduta su di lui, anziché su un Ambasciatore di carriera, probabilmente meglio dotato degli strumenti tecnici per capire nei dettagli la politica di sviluppo messa in atto dal Xi Jinping, era stata infatti unanimemente interpretata, da professionisti ed esperti di questioni internazionali, come una designazione deliberatamente finalizzata a perpetuare la linea politica impressa alla Germania dalla Cancelliera uscente. Una linea piuttosto filo-cinese, come dimostrato dal suo essere stata principale promotrice dell’Accordo sugli investimenti reciproci stabilito tra Cina ed UE, e che proprio in Cornovaglia Biden e il suo Segretario di Stato, Anthony Blinken avevano invano tentato di bloccare.
 
Stabilizzare nell’era post-Merkel i positivi sviluppi delle relazioni sino-tedesche che hanno caratterizzato gli ultimi anni, questo era dunque il compito di Jan Hecker. E proteggere, il di lei lavoro politico, che rischia attualmente di essere spazzato via dai gravi problemi di salute che hanno spinto, all’età di soli 66 anni, la principale personalità politica tedesca del primo ventennio del secolo a non ripresentarsi alle prossime elezioni politiche. Compito che egli non potrà ormai più portare avanti.
Un’inquietante analogia
 
Qualche osservatore più malizioso, poi, ha creduto di trovare, in questa tragica e intrigante vicenda, qualche analogia con un caso verificatosi in Israele l’anno scorso, in piena presidenza Trump: quello della morte subitanea dell’ambasciatore Du Wei, che rappresentava la Repubblica Popolare Cinese a Gerusalemme, dove gli Stati Uniti avevano da poco trasferito la loro Ambasciata, dando un non secondario segnale di amicizia allo Stato ebraico e al suo Primo Ministro del tempo, Benjamin Netanyahu.
In carica da appena tre mesi, dopo essere stato Ambasciatore e trattato dossiers molto delicati in una sede politicamente assai calda come l’Ucraina, anche Du Wei – 58 anni, tipico esponente di una generazione nettamente post-rivoluzione culturale, e fortemente impegnata nell’apertura della Cina al mondo intero – era stato trovato senza vita, per cause “ignote”, nella sua residenza di Hetzliya, un quartiere di Tel Aviv che per molti aspetti può essere considerata la Silicon Valley dello Stato di Israele.
E questo, subito dopo aver dedicato, sul giornale conservatore Jerusalem Post alcune riflessioni su temi delicati, come “le analogie caratteriali dei popoli israeliano e cinese”, e su un possibile ampliamento della già significativa collaborazione tra i due paesi, specie nel campo delle tecnologie oggi più avanzate. Un articolo che però era stato visto anche come una dura risposta alle critiche ad Israele esplicitate del segretario di Stato americano Mike Pompeo durante la sua visita nel Paese la settimana precedente e conclusa tre giorni prima l’improvvisa morte del diplomatico.
In quella occasione, l’allora Capo della diplomazia di Donald Trump aveva infatti apertamente dichiarato, in un’intervista alla tivù israeliana la contrarietà di Washington a che “il Partito comunista cinese abbia accesso alle infrastrutture israeliane e al sistema di telecomunicazioni. Tutto ciò mette i cittadini israeliani a un rischio che consideriamo molto serio”.  E si trattava di un evidente riferimento o alla collaborazione sino-israeliana non solo sullo sviluppo della rete 5G e sul potenziamento del porto di Haifa, ma anche sui vaccini e, in generale, nel campo della medicina: collaborazione che aveva suscitato notevoli aspettative negli ambienti scientifici, e non poche preoccupazioni negli Stati Uniti.
Tempesta di conspiracy theories
 

L’elemento che ha attirato l’attenzione dei media di tutto il mondo sul caso Du Wei è stata però l’esplosione di una vera e propria tempesta di teorie complottiste, che hanno finito per costituire di per se stesse un fatto degno di cronaca, e alle quali il quotidiano israeliano Jerusalem Postha dedicato amplissimo spazio ( CLICCA QUI ).

Si può mettere da parte la controproducente rozzezza del comportamento di Mike Pompeo, che ha, come si ricorderà, cercato di applicare la “maniera forte” anche con il Vaticano (CLICCA QUI). Come si può mettere da parte ogni balorda teoria di una responsabilità americana. Ma quel che non può non suscitare forte interesse per la morte di Du Wei, è la natura dei tre paesi coinvolti; natura che ha – per una volta – reso degni di attenzione questi rumors , normalmente considerati come parto della fantasia di un’opinione pubblica internazionale sempre più disinformata (ma, per dire il vero, peggio informata in Europa che in America), e sempre più trascurata dagli attori primari della governance globale.
Indubbiamente, né gli Stati Uniti, né Israele, e tanto meno la Cina sono repubbliche delle banane caratterizzate da instabilità istituzionale e da metodi così scoperti e trasparenti di regolamento dei dissensi politici nelle proprie alte sfere. E neanche sono comparabili alla Russia, che da un latto è oggetto di continue accuse di usare con troppa disinvoltura l’arma dell’omicidio politico e dall’altro è frequente vittima, negli ultimi tempi, di una serie eccessivamente lunga di “morti in servizio” nelle file della propria diplomazia per non far sollevare – come si diceva – qualche sopracciglio.
Troppi suoi ambasciatori hanno infatti perso la vita in circostanze non molto chiare, in primis  Vitali Churkin, che rappresentava Mosca alle Nazioni Unite, morto nel 2017, vittima di un po’ troppo improvviso attacco cardiaco. E poi ci sono stati – l’anno precedente – il caso di Andrei Karlov, assassinato in Turchia da un poliziotto, nonché in quello stesso 2017, quelli dell’ambasciatore in Sudan Migayas Shirinskiy e di due altri diplomatici russi in India e in Grecia.
La sensazione che si ha dall’essere diventata, la diplomazia, un mestiere tanto pericoloso, è in conclusione analoga a quella suscitata da tutta una serie di altri eventi recenti, compresa la ritirata americana dall’Afghanistan e il modo del tutto anomalo in cui essa ha avuto luogo.
Siamo evidentemente in tempi dinamici, in cui la diplomazia – esplicita e segreta – ha un ruolo particolarmente attivo; tempi in cui vengono modificati i vecchi equilibri che ci hanno protetto per decenni da eventi come le due guerre mondiali, ma che che talora appaiono sopravvissuti a sé stessi. E siamo forse in tempi in cui sulla governance del mondo globale venutasi a creare negli ultimi trenta-quaranta anni pesano tanto grandi trasformazioni storiche quanto oscuri intrighi di potere.

Giuseppe Sacco