Cinque Maggio: Italia e Francia 200 anni dopo – di Giuseppe Sacco

Cinque Maggio: Italia e Francia 200 anni dopo – di Giuseppe Sacco

Se i Tedeschi, alla fine dell’ottocento, accusavano di aver subìto, nella loro storia, ben quaranta invasioni da parte dei Francesi, nella storia Italia tale computo sarebbe pressoché impossibile.  E forse supererebbe il conto di quelle dei nostri vicini germanici; anch’essi peraltro assai amati di “far Pasqua nelle lor tane, e poi scendere a valle=.

E’ un’abitudine molto antica dei nostri vicini del Nord, quella di venirci a far visita, anche senza essere invitati; ed è anche un’abitudine facile da spiegare. L’Italia, Infatti, non solo è stata per molti secoli il paese più ricco del mondo occidentale, e quindi una preda altrettanto allettante, ma è anche un paese che un invasore poteva percorrere in tutta la sua lunghezza grazie ad un formidabile sistema di strade, e senza dover superare zone desertiche, dove sarebbe stato difficile trovare nutrimento per le sue orde. E del resto, era stata proprio questa la ragione dello spostamento, nel 330 d.C., della capitale dell’impero romano a Costantinopoli, che poteva essere raggiunta dai barbari solo dopo una lunga e difficile traversata delle selvagge ed aspramente inospitali montagne dei Balcani.

Pays de royauté

Ma non c’era solo l’attrattiva del saccheggio. L’Italia è stata per secoli anche il terreno di uno scontro politico-ideologico tra Tedeschi e Francesi. E ciò perché la Francia si configura, storicamente, come un paese molto particolare nel contesto del Medioevo europeo, per essere stata, sin dai suoi inizi, un pays de royauté, cioè, politicamente, un Regno. E questo significava una posizione di rottura nei tempi in cui era prevalente la concezione dell’Impero unico comprendente tutto il corpus christianum.

Anche come regime interno, la storia della Francia è assai particolare, già nell’Europa medioevale. E’ la storia di un lungo processo di omogeneizzazione culturale più o meno forzata dei vari gruppi etnico-linguistici presenti sul suo territorio e di una lungamente crescente centralizzazione politica, che farà dell’Esagono l’incubatrice del moderno Stato nazionale. Mentre la tradizione imperiale, contrariamente a quello che può sembrare ex-post, nella prospettiva odierna, era vista come una tradizione di diversità culturale e persino di libertà. Intese ovviamente come libertà locali, non come libertà nel senso moderno della parola, cioè come libertà personali e politiche.

Anche sotto l’Ancien Régime, quindi, i Francesi hanno a lungo percepito se stessi come una società ideologicamente “diversa”, e militarmente assediata. I Re francesi hanno così sviluppato una sindrome che ha raggiunto il suo punto massimo alla metà del Cinquecento,  all’epoca di Carlo Quinto. In aggiunta al mai risolto conflitto con l’Inghilterra, il cui dominio dei mari ha di fatto impedito alla Francia di trarre dal suo amplissimo litorale atlantico  ogni possibile beneficio marittimo, militare, commerciale o coloniale, il nemico germanico premeva allora da Est, ed i Paesi Bassi erano parte dell’Impero, mentre gli Spagnoli, di cui Carlo V era Re, stringevano la Francia sui Pirenei. E il fatto che il Gran Cancelliere, in pratica il Ministro degli Esteri, di Carlo quinto fosse un piemontese, Mercurino Gattinara, li inquietava non poco.

La Grande Aquila

Una differente, e moderna, concezione della libertà sarà invece la bandiera dell’ultima invasione del nostro paese da parte dei “cugini” d’Oltralpe, al passaggio tra due secoli, il Settecento e l’Ottocento, solo centocinquant’anni dopo la minaccia costituita da Carlo Quinto. E fu l’invasione dell’Italia che, con la disfatta austriaca che ne seguì, più drammaticamente ha segnato – e ancora segna – la storia del Paese in cui oggi viviamo.

A guidare quell’invasione c’era l’uomo di cui si commemora oggi il duecentesimo anniversario della morte: la “grande aquila”, Napoleone Buonaparte. Ed alle sue folgoranti vittorie si deve il vero e proprio terremoto da lui provocato nei complicati assetti politici della Penisola, e da cui  prese avvio la storia dell’Italia contemporanea, la nostra storia. Ma ciò non significa che l’idea della nascita, anche al di qua delle Alpi, di uno stato nazionale unitario, molto più popoloso, molto più ricco, molto più sofisticato dei regni iberici, avesse allora smesso di terrorizzare le classi dominanti transalpine; anche la nuova classe dominante, quel “Terzo Stato” che si era imposto col giuramento della Pallacorda, si era insanguinato con la decapitazione del Re, e si era arricchito con l’appropriazione delle terre del clero e della nobiltà.

In Italia, Napoleone fu accolto quasi trionfalmente, tanto che ancora oggi in molte città d’Italia a lui sono dedicate piazze, vie monumenti, anche più di quanto non accada on Francia. Ed il suo arrivo fece affiorare e rese manifesti tutti i fermenti di modernità e di libertà che nel Settecento avevano ribollito sotto i regimi asburgico e borbonico, e che li avrebbero nell’Ottocento disarcionati e travolti. Perché i due secoli a cavallo dei quali egli trionfò si sarebbero ben presto rivelati “l’un contro l’altro armati”.  Ed egli era e rimase, sotto il profilo culturale ed ideologico, un uomo del Settecento, il secolo della borghesia nascente e dei diritti individuali, mentre già si annunciava l’Ottocento, il secolo delle masse e del sentimento nazionale.

Lo si vedrà pienamente e drammaticamente un decennio più tardi, nella Spagna dal lui conquistata, ma mai domata né sottomessa, e che si ribellava per ragioni che a lui rimasero sempre incomprensibili. Come potevano, egli si chiedeva, i popoli della penisola iberica dimostrarsi così indifferenti al fatto che egli li aveva liberati da regimi caratterizzati da privilegi iniqui, da monarchie dai caratteri arcaici? Come potevano quelli cui aveva tentato di dare istituzioni ispirate a quelle della stessa Francia prestarsi così volentieri alla strategia di guerriglia e logoramento del Duca di Wellington? La “grande aquila” non trovava risposta; perché non coglieva il carattere profondo della guerra combattuta da Spagnoli e Portoghesi, il suo carattere popolare, che già preannunciava l’era dei nazionalismi che sarebbe stata l’Ottocento.

Analogamente gli era sfuggita – dall’11 Maggio 1796, quando al suo ingresso trionfale a Milano,  Melzi d’Eril  gli consegnò le chiavi del città, sino all’ultimo giorno da lui trascorso all’Isola d’Elba, il 26 Febbraio 1815 – la nascente vocazione nazionale del popolo italiano; una vocazione che non poté che restare delusa e insoddisfatta quando egli considerò la penisola troppo lunga è troppo stretta perché potesse essere organizzata in un’unica entità statuale. E tornò a rinchiudere gli Italiani nelle “piccole patrie” che già Machiavelli aveva denunciato, dividendone tra Regno d’Italia e Regno di Napoli la parte che non fu annessa direttamente alla Francia.

In definitiva, più sensibile di lui alla temperie politica dell’Italia e ai sentimenti della popolazione si rivelò l’uomo che egli aveva posto sul trono di Napoli, Gioacchino Murat, che Napoleone considerava un grande combattente ma un mediocre politico. Dopo la sconfitta di Napoleone a Lipsia, invece, questi tornò nel suo regno, e cercò di salvarlo con un capovolgimento delle Alleanze, che fu visto con favore a Londra, E quando Napoleone fuggì dall’Elba uscì dai suoi confini e giunse fino a Rimini, da dove rivolse agli italiani un appello all’unità e all’indipendenza.

Il Proclama di Rimini e la sindrome francese

Gioacchino fallì, perché al Congresso di Vienna prevalsero le tesi più stupidamente reazionarie. E per questo morì fucilato, in nome di una legge contro la sovversione che egli stesso aveva proclamato del regno di Napoli. Ma il sentimento nazionale degli Italiani non morì con lui; anzi il “Proclama di Rimini”, che aveva impressionato  Alessandro Manzoni al punto da fargli esclamare «Liberi non sarem se non siam uni», e da fargli vedere in Murat un novello Mosé, è stato in seguito considerato il primo episodio di quello che sarebbe stato il Risorgimento.

Né è però morta la sindrome francese nei confronti dell’Italia; anzi, a guardar bene, essa è viva e visibile persino ai nostri giorni.  Anche senza andare troppo lontano dalla storia contemporanea, anche a limitarsi agli ultimi 150 anni, cioè dal momento dell’unificazione nazionale dell’Italia ad oggi, questa ossessione della politica estera francese, viene resa evidente dal fatto che mai è stato perdonato a Napoleone III di essere entrato in guerra nel 1859 contro l’Austria assieme al Piemonte. Anche se poi tradì  immediatamente l’alleato, quando si accorse che gli eventi andavano molto al di là del suo disegno di creare una specie di Belgio padano, un buffer state, uno stato cuscinetto, su di lui continua  ancora la colpa storica di avere così grossolanamente sbagliato la valutazione del sentimento nazionale italiano da finire per favorire gli sviluppi che  porteranno all’unificazione della Penisola e al nostro Risorgimento nazionale.

Ancora oggi, l’idea dell’Italia frammentata in più “piccole patrie” fa sognare i Francesi, basta vedere l’attenzione dedicata dalle scuole di Scienze Politiche ai vaneggiamenti separatisti della Lega della prima ora, e persino alle risibili ambizioni dell’attuale erede dei “Borboni delle Due Sicilie” di un possibile ritorno a Napoli, come sovrano. Non a caso la TV francese lo ha mostrato mentre rispondeva allo scetticismo di un intervistatore: “Cosa ci sarebbe di strano? Anche mio cugino è tornato sul trono di Spagna…!”

Del resto, subito dopo la Seconda guerra mondiale, perfino un grande statista come De Gaulle si fece attrarre per un momento dal sogno di annettere alla Francia una provincia italiana. Ma l’accoglienza che la popolazione della Valle d’Aosta gli riservò in occasione di una sua visita lo convinse rapidamente a lasciar perdere.

Una proposta poco credibile

In questo nuovo secolo, e ancor più chiaramente sotto l’ambiziosa presidenza Macron, Parigi sembra aver avviato, nei confronti del nostro Paese, una nuova linea diplomatica, facendo balenare addirittura l’ipotesi di un Trattato bilaterale, che dovrebbe fare da contrappeso al Trattato dell’Eliseo, stipulato nel 1963 tra Adenauer e De Gaulle, e – nella pretesa di guidare politicamente un’Unione Europea che non cessa, mentre perde la Gran Bretagna, di attrarre a se ogni sorta di staterelli balcanici e esteuropei – sostituire la “coppia” franco-tedesca con una sorta di alleanza a tre.

Naturalmente, si tratta di un disegno del tutto irrealistico, in cui è difficile immaginare che possano credere quegli stessi che ufficialmente lo propongono. Il peso e le ambizioni internazionali dell’Italia sono infatti del tutto incomparabili con quelle della Francia. In comune, i due paesi, hanno soltanto il fatto difficilmente discutibile di essere entrambi, come tutta l’Europa, dominati in maniera soverchiante dalla Germania. Mentre il cosiddetto “Asse franco-tedesco” è poco più di una foglia di fico che dovrebbe nascondere all’opinione pubblica internazionale da un lato la debolezza di Parigi e dall’altro il ruolo imperiale di Berlino.

A differenza dell’Italia, ovviamente, la Francia cerca di rivalersi come può dell’evidente asimmetria franco-tedesca. Parigi perciò intrattiene legami il di vario tipo al di fuori dell’Europa; legami appaiono piuttosto coerenti con l’attuale fase di declino dell’egemonia americana e con le sue conseguenze sugli equilibri internazionali. Sinora, tuttavia, ha avuto la possibilità di farlo soprattutto fuori dall’Europa, in primo luogo mirando al recupero della parte africana del suo ex impero coloniale; del suo secondo impero coloniale, ovviamente: quello costruito a partire dal 1840, dopo che il tentativo napoleonico di dominare l’Europa, la aveva portata ad abbandonare quel che restava – e non era poca cosa – dei suoi territori americani.

Parigi presenta questa ambizione degna del suo passato e della sua gloria, questa rinnovata e comprensibile nuova proiezione mondiale, col progetto di voler dar vita ad un’area internazionale francofona. Ma in realtà, dietro di esso non è difficile vedere un disegno economico e politico-coloniale. Per di più, facendo riferimento all’elemento linguistico, la Francia può, tra l’altro, sperare di avere un ruolo più significativo dell’attuale nei territori che furono del Belgio, come il Congo, enorme e ricchissimo di risorse sui cui si appuntano le attenzioni di tutte le potenze, vecchie e nuove, del mondo globalizzato. In più, l’iniziativa di Sarkozy in Libia come la recente visita di Macron in Libano, mostrano come anche il Medioriente rimanga nel radar francese.

In Europa, invece, le sue ragionevoli ambizioni non potrebbero andare molto al di là alla parte meridionale del Belgio, qualora questo finisse per disgregarsi sotto la pressione delle due componenti olandese e germanica: in pratica sono limitate alla sola Wallonie francofona, che verrebbe a formare tre nuovi dipartimenti,

Il fatto evidente che la Francia neo-imperiale possa trovare spazio soprattutto fuori dall’Europa rende insomma poco credibile la fattibilità della proposta di un “Trattato del Quirinale”, ispirato e complementare a quello “dell’Eliseo”. Anche perché Parigi, oltre che nei paesi francofoni, dispone di altre significative carte da giocare sulla scena mondiale, ad esempio puntando alle potenzialità dei fondali oceanici. E queste non sono poca cosa; anzi – soprattutto e partire dagli anni ’70, man mano che le risorse terrestri diminuivano –  hanno suscitato crescente interesse, in quanto serbatoio di risorse sia energetiche che alimentari.

I coriandoli dell’Impero

Pur costretta dalle circostanze della Guerra Fredda a rinunciare alle proprie colonie in Indocina e in Nord Africa, la Francia – a differenza dell’Inghilterra, l’altra grande potenza coloniale – ha infatti mantenuto la sovranità su un gran numero di territori d’oltremare, in genere piccole e piccolissime isole, i cosiddetti “coriandoli dell’Impero”, sparpagliati e diffusi ai quattro angoli del pianeta. E ciò la ha enormemente favorita quando i fondali oceanici sono stati spartiti tra i paesi rivieraschi, cosicché con 11 milioni di km2 – pari al doppio della superficie della UE –, la Zona marittima Economica Esclusiva di Parigi è la seconda al mondo per dimensioni, dopo quella degli Stati Uniti. Per di più, dato che Washington non ha ratificato la convenzione di Montego Bay, che regola questa materia, la Francia finisce per essere il principale paese marittimo all’interno degli organismi delle Nazioni Unite da questa Convenzione creati.

La Francia ha insomma orizzonti assai più ampi di quelli europei, e molto diversi da quelli dell’Italia. L’Italia non ha, e non può avere, nessuna ambizione e possibilità di questa scala e di questo tipo, e non può quindi in alcun modo essere confrontata alla Francia. Il che però non significa che non abbia talora interessi in conflitto con le ambizioni di Parigi. Una ferita ancora sanguinante, di cui ricorre proprio in queste settimane il decimo anniversario, sta a ricordarcelo: il fatto che l’Italia sia stata duramente danneggiata nei suoi interessi economici e politici dall’assassinio di Gheddafi e dal regime change in Libia, voluti e organizzati dal Presidente francese Sarkozy.

Il Colonnello e leader rivoluzionario internazionale, infatti, aveva capito che con l’Italia si poteva andare d’accordo, anche perché, come dichiarò esplicitamente in una intervista ad un quotidiano tedesco “gli Italiani sono l’unico popolo europeo che non ha nostalgia del colonialismo”. Non si sbagliava. Per questo era diventato non solo un grande sostenitore dell’amicizia tra i due paesi, ma anche un non trascurabile investitore nella nostra economia. E anche per questo ha perso il potere e la vita.

Molto spesso, per quel che riguarda i rapporti bilaterali con Parigi, l’Italia, di recente come in passato, ha giocato con timore reverenziale e sotto l’impatto della grande ammirazione che gli Italiani, e soprattutto i suoi intellettuali, riservano alla “sorella latina,  al suo grande passato rivoluzionario, e al suo sua secolare tradizione statuale. Troppo spesso, perché la linea diplomatica di Macron possa essere accettata senza un’attenta prioritaria analisi.

A ricordarcelo, proprio in questi giorni, si aggiunge una riviviscenza della pluridecennale, ma sempre attualissima, questione dei criminali e terroristi italiani ospitati, protetti e persino omaggiati al di là delle Alpi. E di recente riportati al centro dell’attenzione – dopo aver loro consentito di risparmiarsi quarant’anni di galera – non certo per offrire un contentino all’Italia, ma piuttosto per dare un segnale politico all’opinione pubblica francese di estrema destra; e ad una frazione delle forze armate, che proprio nei giorni immediatamente precedenti aveva dato allarmanti segni di vita.

Giuseppe Sacco