Il sistema sanitario: ha funzionato? Cosa cambiare? – di Alberto Cozzi

Il sistema sanitario: ha funzionato? Cosa cambiare? – di Alberto Cozzi

Da decenni non ci accadeva di affrontare in Italia e nel mondo occidentale una crisi sanitaria così devastante e generalizzata come la pandemia da Sars-CoV-2, sindrome ufficialmente nota come Covid-19 secondo la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Un’epidemia di tali proporzioni che solo le generazioni più anziane hanno riconosciuto nella loro memoria, ricordando i tempi della spagnola e dell’asiatica, mentre i giovani ne erano totalmente all’oscuro. Una pandemia dunque che ci ha colto tutti di sorpresa, autorità sanitarie pubbliche e operatori sanitari, a cui non è stata dedicata specifica formazione nella didattica universitaria e neppure nell’attuazione dei protocolli di prevenzione, nonostante fosse stato approntato un Piano Regionale Pandemico dal 2006, sulla scorta di un corrispondente Piano Nazionale, riaggiornato il 22/12/2010 (Delibera IX 1046 Regione Lombardia), rimasto tuttavia nel cassetto.

L’allarme suscitato nella popolazione italiana, specie in quella lombarda più colpita, non ha paragoni con precedenti epidemie, ancor più rovinose in termini di mortalità, ma con epicentro in altre aree del mondo (Sars, Mers, Ebola). Seppur umanamente comprensibile questa reazione riflette la grettezza di un’impostazione culturale, oltre a una sensibilità sociale ancor provinciale e individualista circoscritta ad ambiti relazionali di stretta vicinanza.

L’origine dello sviluppo della pandemia in Asia, ma rapidamente esteso a tutti i continenti, ha dimostrato le sue caratteristiche di facile contagiosità con elevata morbilità e letalità. Il contagio ha colpito in misura maggiore quanti hanno molteplici rapporti di prossimità interumana e le persone con una maggior fragilità esistenziale a causa di malattie e disabilità o per età avanzata. La Lombardia era in effetti uno scenario privilegiato di massimo contagio per le fitte relazioni commerciali e per l’esistenza di una popolazione in gran parte anziana e portatrice di malattie croniche debilitanti. Abbiamo dunque assistito al paradosso di una Regione che, pur con un sistema sanitario avanzato e organizzato nel welfare, non ha saputo proteggere proprio le fasce più deboli da tutelare maggiormente.

Ciò è stato fonte di preoccupazione e delusione nei cittadini, ma ancor più nel personale sanitario che già da tempo intravedeva le crepe di una sanità in difficoltà a garantire l’universalità delle cure prevista dall’art. 32 della Costituzione. Inadeguatezza, disorganizzazione, ritardi e mancato coordinamento sono stati denunciati da troppi addetti ai lavori, ospedalieri e del territorio: un’inevitabile scotto, forse, nell’esordio drammatico della patologia, ma sorprendente e colpevole nel prosieguo delle fasi successive.

Non è certo ancora tempo di bilancio globale, ma è sicuramente urgente l’opportunità di riflettere sul modello di salute pubblica vigente, sulla sua capacità di farsi carico dei bisogni metropolitani in continuo divenire e sulla possibilità di imparare da questa vicenda per affrontare ulteriori e ipotizzate ondate epidemiche.

Cercheremo pertanto di analizzare alcuni temi di fondo alla luce delle recenti vicende sanitarie per ricavarne insegnamenti per un futuro a breve e medio termine, lasciando a chi ha competenze più specifiche e soprattutto ai decisori politici di affrontarne la fattibilità. Lo farò dal mio personale osservatorio delle cure primarie che conosco da quarant’anni e a partire da una visione cristiana che promuova per tutti il bene della persona, tutelando soprattutto le fasce più deboli e svantaggiate. Negli ultimi vent’anni molti interventi autorevoli si sono succeduti nel magistero episcopale ambrosiano: ci faranno da guida in questo percorso di riflessioni ed orientamenti.

La classe medica non ha perso la bussola

Il punto cruciale da cui partire è la qualità professionale espressa dai medici per fronteggiare le conseguenze socio-sanitarie di fronte a un’epidemia inaspettata e a una sua diffusione veloce e impressionante. La risposta data si è dimostrata globalmente matura, più visibile ed efficiente nelle aree dell’emergenza ospedaliera, con abnegazione e lavoro massacrante prima ancora di avere disponibili tutti gli strumenti necessari. L’insieme del sistema capillare territoriale, gravemente insufficiente e impreparato e in mancanza di un efficace coordinamento, è stato tuttavia presidiato, grazie alla dedizione e al generoso impegno personale, con una presenza e rassicurazione costante della popolazione. La risposta generosa nel soccorso dei malati, senza risparmio e in assenza di adeguate protezioni, evidenzia un buon livello di preparazione e professionalità della classe medica che non ha perso la bussola nella tempesta inedita.

Nonostante molte criticità siano emerse da tempo su una formazione accademica centrata sull’acquisizione di competenze tecnico-scientifiche marginalizzando gli aspetti etici e umani, la straordinaria risposta degli operatori sanitari, da molti additata come eroismo, conferma quanto già affermato dall’arcivescovo di Milano mons. Mario Delpini: «La motivazione “vocazionale”, intesa in senso generale, continua a ispirare giovani italiani anche in un momento come questo, in cui la professione medica appare talora meno prestigiosa e meno garantita di quanto fosse in passato.»[1] Gli operatori sanitari e sociali non si sono limitati alle loro mansioni, senza ridurre il loro impegno lavorativo in misura delle disponibilità presenti, ma al contrario si sono impegnati in attività non previste, confermando così una fedeltà alla relazione di cura, segno di grande senso di responsabilità e dedizione. Ciò è accaduto trasversalmente nelle generazioni di medici di varia età, ma certo impone per il futuro un’attenzione particolare ai giovani laureati per «sostenere la perseveranza in un percorso di studio tra i più impegnativi e prolungati nell’offerta universitaria italiana, in cui si richiede una specializzazione e, spesso, una lunga attesa prima di conseguire una stabilità nell’esercizio della professione. Questo impegno e questo tempo in una sorta di “sala d’attesa” diventano motivo di frustrazione e di scoraggiamento invece che aiuto a incrementare competenza ed esperienza».[2] Bisognerà dunque salvaguardare nel tempo questo prezioso patrimonio di competenze, umanità e solidarietà di una classe medica che si va rapidamente trasformando con una più massiccia presenza femminile (il 65 per cento dei medici under trenta è donna) e con l’ingresso di giovani medici più orientati al sapere tecnico e a un metodo clinico informatizzato.

Sarà altrettanto importante riservare un’attenzione specifica alle questioni etiche e biopsicosociali nell’insegnamento post-laurea e post-specialistico quando il medico si confronta con l’attività clinica.  Un più deciso rilievo dovrà emergere su temi di sanità pubblica, a livello ospedaliero e territoriale, finora disattesi e marginali con il rischio di una professione sempre più espressa in senso tecnico e individuale e che si apra invece alla responsabilità e al bene comune.

Doveroso sarà pure il ripensamento sulla formazione permanente dei sanitari, sulla qualità dell’aggiornamento scientifico e dei suoi rapporti di trasparenza e obiettività col mondo della ricerca e dell’industria farmaceutica che, troppo spesso, nascondono interessi economici o di privilegio.

Sanità pubblica: quale modello?

Molto complesso appare definire un modello ideale di sanità pubblica sul quale mi limito tuttavia ad alcune considerazioni.

La diffusa convinzione che «il Servizio sanitario italiano sia uno dei migliori del mondo» è certamente veritiera per le figure che vi operano, ma lo stesso non si può dire per le strutture e i mezzi a loro disposizione. In Lombardia, apprezzata per la qualità dell’offerta sanitaria, si sono rese evidenti in questi mesi drammatiche carenze: insufficienza della disponibilità ospedaliera in termini di posti letto, di servizi di emergenza, di terapia intensiva, di personale medico e sanitario e, soprattutto, di inadeguatezza di percorsi d’intervento in continuità assistenziale. In altri termini, la crisi epidemica ha reso evidente la miopia strategica delle politiche di razionalizzazione economica basate sul taglio “lineare” dei posti letto, scesi dai 6,2 per mille abitanti del 1996 ai 3,07 di oggi, oltre che sui “tetti” ai fattori produttivi (personale, beni e servizi).

Questa mancanza di prospettiva ha di fatto trascurato anche le necessità derivanti dal progressivo allungamento dell’attesa media di vita, privando la fase post-acuzie delle infrastrutture necessarie nelle fasi di ridotta intensità sanitaria e di crescente modulazione assistenziale (degenza intermedia, recupero funzionale, mantenimento, hospice, assistenza domiciliare protetta e autonoma con sorveglianza a distanza, ecc.). Non mi addentro sul giudizio che un’eccessiva privatizzazione regionale possa essere stata una concausa, ma sicuramente vi è un problema di sottofinanziamento rispetto ad altri paesi europei che ha portato a differenti livelli di infrastrutture, tecnologie e dotazioni strumentali condizionando la risposta all’epidemia. Le scelte strategiche che dovremo adottare dovranno allora tener conto di maggiori risorse economiche, di un’autonomia regionale sull’indirizzo di nuove linee guida centralizzate, recuperando aspetti che avevamo trascurato: il valore della scienza nel combattere le malattie, della competenza nell’assumere decisioni sanitarie, dell’impegno nell’esercizio delle proprie funzioni.

Occorrerà pertanto ridisegnare un nuovo modello di offerta sanitaria che tenga conto della domanda in ambito clinico, diagnostico e preventivo, ma soprattutto della salvaguardia di alcune fasce sociali e dello spostamento progressivo verso una cronicizzazione delle patologie. Secondo questa logica sarebbero auspicabili strutture residenziali a diversa intensità di cura e assistenza in grado di gestire il completamento dei percorsi di guarigione (cure intermedie/post-acuzie), di recupero funzionale e consolidamento dello stato di equilibrio psicofisico, nonché il reinserimento assistito e/o monitorato a domicilio attraverso l’integrazione funzionale o strutturale con centri di continuità assistenziale.

Ci associamo dunque alle dichiarazioni di Silvio Garattini, presidente dell’Istituto Mario Negri, sulla necessità di rifondare il Servizio sanitario nazionale (Ssn): «Bene comune da proteggere in tutti i modi. Ogni medico dovrebbe avere il concetto che qualsiasi intervento non strettamente necessario va a scapito di tutta la comunità. [] Un Ssn che, a 40 anni dalla sua istituzione, ha tradito se stesso perché ha perso una delle sue caratteristiche: l’equità dell’accesso.»[3]

Scelte etiche di responsabilità, solidarietà e sussidiarietà

Il tema che fa da sfondo si colloca nel più grande diritto alla salute di cui si è recentemente espresso il Comitato nazionale di bioetica (Cnb) dell’8 aprile 2020 rimarcando il dettato costituzionale e in particolare l’art. 32 (la salute come «fondamentale diritto dell’individuo» e «interesse della collettività»), l’art. 2 che riconosce e garantisce il principio personalista e il dovere di solidarietà e l’art. 3 che contempla il principio di eguaglianza, laddove essi costituiscono dei «punti di riferimento irrinunciabili per la relazione di cura, anche quando questa venga promossa in condizioni di criticità estrema come quelle attuali». Già nel tempo ordinario e in epoca di risorse sanitarie limitate la traduzione di questi principi risulta di difficile e reale applicabilità, ma le decisioni imposte dall’emergenza pandemica ne hanno reso manifesti limiti e scelte drammatiche. In aggiunta il documento del Cnb fa riferimento alla legge 833 (1978), istitutiva del Servizio sanitario nazionale, che prescrive che la cura vada assicurata secondo un criterio universalistico ed egualitario e ciò «comporta il dovere di fare sempre tutto il possibile per garantire a tutti, nessuno escluso, la tutela della salute; ugualmente si deve fare tutto il possibile per non trovarsi in una situazione di grave carenza di risorse professionali, di dispositivi sanitari, di posti letto. [] Nell’allocazione delle risorse si debbano rispettare i principi di giustizia, equità e solidarietà, riconoscendo il criterio clinico come il più adeguato punto di riferimento, ritenendo ogni altro criterio di selezione eticamente inaccettabile». Il documento sottolinea poi come il triage in emergenza pandemica debba basarsi sull’appropriatezza clinica e sulla valutazione individuale di ogni singolo caso nella più ampia «comunità dei pazienti», ma soprattutto sulla cosiddetta preparedness, «la predisposizione cioè di strategie di azione nell’ambito della sanità pubblica, in vista di condizioni eccezionali, con una filiera trasparente nelle responsabilità».

L’insegnamento che ne deriva per il presente e nel medio-lungo termine sarà dunque l’esigenza di ripartire dalle scelte etiche di responsabilità, solidarietà e sussidiarietà rivedendo l’impostazione del “sistema” sanitario come “servizio”. Su questo tema nel 1999 già con molta forza si era espresso il card. Carlo Maria Martini alla prima Conferenza nazionale della sanità: «Di fronte a una cultura che spesso sembra spingere a considerare l’intero sistema sanità come una qualsiasi azienda, la salute come un prodotto e il malato come un cliente, è urgente e necessario riaffermare la centralità della persona umana. [] Si tratta allora di affrontare i temi della sanità secondo l’ottica di uno Stato sociale che sappia coniugare insieme assistenza e produttività, efficienza e qualità, giustizia e solidarietà. [] Umanizzare il sistema sanitario risponde a un dovere di giustizia e civiltà, parlando di tutela della salute, ossia di un fondamentale diritto della persona. È quindi necessario che l’intera società, secondo un’ottica coerente con il principio di sussidiarietà, garantisca la protezione e la cura dei suoi membri e si faccia carico di quelle necessità che essi non sono in grado di risolvere in proprio. [] In questo senso, per un’adeguata cura della persona, anche l’introduzione in ambito sanitario di criteri gestionali di tipo aziendalistico è accettabile e condivisibile se essi sono finalizzati all’ottimizzazione dei risultati.»[4]

Nuova centralità dell’area della Medicina generale

Nel disegno così ipotizzato va prefigurato anche un diverso ruolo del territorio, di cruciale criticità nella diffusione virale, e in particolare dell’area della Medicina generale, recuperandone dignità anche attraverso nuovi compiti professionali. La considerazione che finora aveva assunto nel Ssn è stata quella di una medicina di base capace di risposte generiche e indiscriminate sul piano clinico-diagnostico con una crescente responsabilità nel controllo della spesa, sottraendola al dovere di indipendenza e autonomia professionale. Il carico burocratico appesantito negli anni, l’indicazione verso decisioni cliniche guidate da protocolli accentrati e controllati, oltre alla mancanza di uno specifico curriculum universitario, ne hanno espropriato funzioni, compiti e abilità peculiari. Si impone un cambiamento dove la Medicina generale, percepita come specialità al pari delle altre, possa essere concorrenziale verso la crescita di una sanità integrativa dove stanno fiorendo compagnie private e fondi assicurativi con il manifesto obiettivo del profit.

Occorre dunque rivisitare il modello convenzionale ormai obsoleto e nemmeno premiante per la professionalità del medico di medicina generale (Mmg), ipotizzando una sua presenza autorevole nel governo di posti letto di prossimità e nei centri di continuità assistenziale, anche per la gestione domiciliare. Preme tuttavia recuperare la sua qualità preminente e strategica nella conoscenza e nella gestione multidimensionale e intergenerazionale. L’attuale emergenza sanitaria ne ha invocato il ruolo nelle seconde e successive fasi per decifrare e contenere il contagio tra familiari riscoprendo così “candidamente” l’importanza di una Medicina di famiglia, forte di penetrazione sul territorio specie per le fasce deboli e anziane. Una medicina, tanto agognata dai cittadini, davvero in grado di recuperare la qualità e il tempo per una sana comunicazione che permetta di coltivare, oltre alla dimensione tecnico-scientifica, quella profondamente umana e relazionale.

La pandemia infatti ha rapidamente cambiato il nostro modo di essere medici, rivedendo priorità e valori all’interno di una rinnovata relazione di cura e fors’anche di una nuova deontologia. Ornella Mancin, presidente Fondazione Ars Medica Omceo Venezia, ha osservato: «In questi mesi di lockdown le visite specialistiche sono state sospese (eccetto le urgenze) e gli accessi agli ambulatori dei Mmg sottoposti a rigido triage telefonico. Molte consulenze sono state risolte grazie a un incessante contatto telefonico e con l’aiuto di foto e video, lavorando comunque a distanza dal malato.»[5] Anche la ricettazione, spesso funzionale a un incontro e a una consultazione clinica, è stata trasformata in richieste e invio online: «Uno dei capisaldi della nostra professione, la visita medica, ha subito un rapido e significativo ridimensionamento, senza tuttavia venire meno il rapporto di cura con il paziente, anzi forse la comunicazione ne ha giovato: mancando la possibilità di toccare, auscultare, osservare da vicino, abbiamo acuito la capacità di ascolto per decifrare e interpretare sintomi importanti. Il tempo di comunicazione è diventato davvero tempo di cura.»[6] Abnegazione, generosità e disponibilità degli operatori si sono spesso contrapposte al vissuto di improvvisazione, frustrazione e abbandono da parte dell’istituzione e richiedono una riflessione matura sul ruolo di servizio della professione sanitaria.

Una nuova figura di medico si sta gradatamente imponendo ed è auspicabile che ci si interroghi su quanto prefigurato da un eccellente clinico come Carlo Vergani: «Si va sempre più verso un rapporto empatico e verso una medicina narrativa. Il rapporto medico-paziente presenta qualche difficoltà: c’è il “silenzio da camice bianco”, per cui il paziente non osa porre domande al suo interlocutore, e c’è “l’asimmetria di potere”, che privilegia la figura del medico. Oggi il buon medico è quello che sa raccordare la migliore evidenza scientifica disponibile con l’esperienza clinica e il rapporto con la persona.»[7]

Verso una medicina sempre più tecnologica

Abbiamo tutti percepito l’importanza di una medicina sempre più tecnologica non solo per i grandi interventi chirurgici e per la diagnostica, ma anche per la gestione quotidiana nel territorio. Una tecnologia digitale oggi diffusa, grazie a smartphone semplificati e di basso costo, seppur ostica per molti anziani, potenzialmente estensibile anche al controllo della propria salute. La tecnologia ambulatoriale, accanto a una rapida diagnostica domiciliare e alla telemedicina, è certo un innegabile beneficio, pur tuttavia questa epidemia ha dimostrato che essa «da sola non vince, tanto che la quarantena e il confinamento che adottavano gli antichi sono state ancor oggi le misure per eccellenza nell’arginare il contagio. Siamo quindi ancora lontani dal rischio di una tecnologia in grado di soppiantare il medico, anzi abbiamo la dimostrazione pratica di un “buon” governo del medico sulla tecnica.»[8] Cambiamenti che si profilano in un nuovo paradigma della cura dalle forti implicazioni deontologiche legate a nuove responsabilità e al prepotente ingresso in campo dell’informatica e di una medicina virtuale che ha ormai creato un precedente ineliminabile.

Non possiamo infatti nascondere i benefici e le sfide di un’“intelligenza artificiale” che sta compiendo passi da gigante e si imporrà di fatto nei prossimi anni nella gestione della salute, a patto che sia governata da un’etica nuova, la cosiddetta “algor-etica”, perché la persona sia sempre al centro e non ai margini di ogni conquista umana. Una nuova frontiera questa che «intende assicurare una verifica competente e condivisa dei processi secondo cui si integrano i rapporti tra gli esseri umani e le macchine nella nostra era. Nella comune ricerca di questi obiettivi, i principi della Dottrina sociale della Chiesa offrono un contributo decisivo: dignità della persona, giustizia, sussidiarietà e solidarietà. Essi esprimono l’impegno di mettersi al servizio di ogni persona nella sua integralità e di tutte le persone, senza discriminazioni né esclusioni. L’“algor-etica” potrà essere allora un ponte per far sì che i principi si inscrivano concretamente nelle tecnologie digitali, attraverso un effettivo dialogo transdisciplinare.»[9] Un’apertura di credito che papa Francesco sottolinea agli uomini di scienza, riconoscendo i tanti vantaggi della tecnologia e quanto le scienze biologiche devono all’intelligenza artificiale. «Questo sviluppo induce mutazioni profonde nel modo di interpretare e gestire gli esseri viventi e le caratteristiche proprie della vita umana, che è nostro impegno tutelare e promuovere, non solo nella sua costitutiva dimensione biologica, ma anche nella sua irriducibile qualità biografica.»[10]

Il bisogno di cure efficaci e il desiderio di porre fine a tutto con un vaccino ha di fatto riportato in auge il valore dello studio, della ricerca e l’importanza della scienza, pur con tutti i suoi limiti. Studiare, conoscere, sapere e investire in sanità ritornano ad essere verbi riconosciuti dalla società, riaffidando al medico il suo valore sociale. Anche la percezione della “malattia” sta cambiando: la paura del contagio e della morte rende meno urgente ciò che prima veniva percepito come impellente. Da questo ne deriva la quasi totale scomparsa dei codici bianchi nei Pronto soccorso e la drastica riduzione di accessi negli studi medici. Che ne è di tutta quella richiesta che riempiva le sale d’attesa e saturava le prenotazioni specialistiche?

Brevità e fragilità della vita umana

Ma c’è un altro aspetto, sicuramente il più doloroso, che il virus ha profondamente modificato ed è il modo in cui è stato necessario affrontare il fine vita, il morire. Pianificare scelte terapeutiche condivise, accettare la volontà del malato, in un doveroso dialogo col medico, sono capisaldi delle Disposizioni anticipate di trattamento, ma il rischio contagio e l’emergenza/urgenza li hanno stravolti. Quanti avranno avuto modo di conoscere le proprie condizioni, di dare il proprio consenso al trattamento, di esprimere realmente le proprie volontà? E al di là delle necessità scientifiche di conoscenza della propria situazione, quale spazio si è potuto dare ai bisogni esistenziali? Quanto è stato concesso a una valutazione multidisciplinare, a un colloquio con i familiari estromessi di fatto dal settore dell’emergenza/urgenza? Il virus ha costretto all’isolamento dei contagiati e all’impossibilità di comunicare con i propri cari: quanto dolore e quanta sofferenza in questo fine vita senza gli affetti più cari e senza un adeguato conforto spirituale!

Condivido la lezione di umiltà di Carlo Rovelli che ci ricorda che «non siamo i padroni di tutto, né potenti né immortali, e definisce quella in corso non una battaglia fra vita e morte, ma il grande sforzo di tutti noi per regalarci un po’ di vita in più, perché la vita è bellissima, e viverla è ciò a cui diamo più valore. [] A tutt’ora l’epidemia non è la principale causa di morte in Italia. Il dolore non è statistica, la sofferenza di perdere ogni singola persona cara è profonda. Ma questa sofferenza non l’ha inventata questa epidemia: c’è comunque. Diecimila morti [l’articolo risale a inizio aprile 2020, ma a fine maggio erano già oltre 30mila – n.d.a.] sono tantissimi, ma sono moltissimi meno dei morti ogni anno per tumore. O per malattie di cuore. O semplicemente per l’età. E, non dimentichiamolo, sono immensamente meno del numero di morti nel mondo per fame o malnutrizione. Quello che sta veramente facendo questa epidemia è metterci davanti agli occhi qualcosa che di solito preferiamo non guardare: la brevità e la fragilità della nostra vita.»[11]

La cura degli anziani in un paese sempre più longevo

C’è poi la grande questione degli anziani. L’Italia è un paese longevo, ma in molti casi gli anziani sono fragili, con più di una malattia, una ridotta autosufficienza e molti farmaci da assumere. Gli over 65 sono 14 milioni, quasi 1 italiano su 4, e questo rapporto salirà a 1 su 3 nel 2050. Oltre 2 milioni di persone superano gli 85 anni. La rete dell’assistenza a lungo termine fatta di cure domiciliari e residenzialità assistita è carente e soprattutto non è realizzato l’obiettivo della continuità assistenziale, la sinergia cioè tra ospedale, comunità e domicilio, che dovrebbe orientare la presa in carico di tutti coloro che hanno raggiunto una certa età. Già nel 2015 l’illustre geriatra Carlo Vergani, recentemente scomparso proprio per il Coronavirus, denunciava il «rischio di un collasso del sistema a causa del progressivo invecchiamento della popolazione e dei malati cronici che assorbono una parte consistente di spesa per la salute anche per via di una half way technology, che salva ma non guarisce, crea dei sopravvissuti, bisognosi di assistenza continuativa. [] Oggi il grosso della spesa sanitaria si concentra nell’ultima parte della vita, ma bisogna distinguere: si spende per la malattia acuta e il ricovero in ospedale, non per una rete di assistenza in grado di alleggerire i costi finali. L’anziano ha bisogno di un’assistenza continuativa integrata, cioè socio-sanitaria, e di una rete di servizi sul territorio».[12]

Il grande mondo degli anziani rappresenta dunque il paradigma della “popolazione fragile”. Nel presentare l’indagine di Italia Longeva nel luglio del 2017 il suo presidente Roberto Bernabei, riferendosi all’invecchiamento della popolazione, affermava: «L’Italia non ha ancora dato una risposta univoca, né ha individuato un modello condiviso, per la gestione della più grande emergenza demografica ed epidemiologica del presente e del futuro.»[13] Anche qui è sottolineata la disomogeneità di risposta a causa di servizi insufficienti e di scarsa integrazione fra servizio sanitario e servizi sociali dei Comuni, e una ben maggiore necessità di assistenza domiciliare, dove si dedicano più ore “di qualità” a ciascun paziente.

Pur essendo l’alternativa più efficace ed economicamente sostenibile all’attuale modello che ruota attorno all’ospedale, e alle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa), l’assistenza domiciliare per la cura a lungo termine degli anziani fragili o con patologie croniche a oggi è pressoché un privilegio; ne gode infatti solo il 2,7% degli ultrasessantacinquenni residenti in Italia (in alcuni paesi del Nord Europa è assistito in casa il 20% degli anziani). I dati Istat ci dicono che assistiamo a domicilio meno di 3 anziani su 100. Tutti gli altri? A intasare i pronti soccorsi, nella migliore delle ipotesi, oppure rimessi alle cure “fai da te” di familiari e badanti, o istituzionalizzati nelle Rsa.

Come costruire una forte rete di domiciliarità, a diversa intensità di cura, rivedendo modalità operative, contesti di accoglienza (cohousing o altre esperienze), integrazione sociale e sanitaria in rapporto ai fabbisogni reali della persona? E come ripensare i modelli assistenziali di Rsa? Questi dati dovrebbero rappresentare non solo per i professionisti della salute, ma anche per i cittadini e per la politica, un campanello d’allarme non più trascurabile. Interrogativi e riflessioni che non sfuggono alla indiscussa competenza di Marco Trabucchi: «La crisi ha indicato con chiarezza l’esigenza di progettualità innovative. L’organizzazione attuale dovrà subire notevoli adeguamenti in risposta all’evidente cambiamento avvenuto in questi anni e che il Covid-19 ha messo in luce, provocando un’inedita accelerazione nella richiesta di nuova progettualità.»[14]

Ma la cura degli anziani, prima ancora di nuovi modelli organizzativi, richiede un’attenzione alla formazione permanente, come ci avverte ancora Vergani: «Un medico nuovo che si occupa di anziani deve essere in grado di fare una valutazione globale, multidimensionale e per questo occorre che anche l’Università riveda i suoi ordinamenti didattici. I più vicini al vissuto personale del paziente sono i medici di famiglia, ma la maggioranza dei medici sono specialisti che si interessano del singolo organo o apparato. Si tratta di un’emergenza formativa che è dunque anche un’emergenza etica.»[15]

Problematiche della salute mentale di pazienti e sanitari

Un tema ulteriore rimasto finora sommerso è che l’emergenza Coronavirus sta provocando la «crescita di segnalazioni di ansia e paura, disturbi del sonno e depressione anche gravi ed è probabile che Covid-19 aggravi preesistenti problematiche di salute mentale e disturbi da uso di sostanze e limiti l’accesso per coloro che hanno bisogno di servizi», come anticipato all’Ansa dal direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus nel suo editoriale che comparirà sul prossimo numero di «World Psychiatry»: «I sistemi di salute mentale ( CLICCA QUI ) in tutti i paesi vanno rafforzati per far fronte all’impatto [], poiché molte persone nel mondo soffrono per la perdita di mezzi di sussistenza e opportunità e coloro che amano una persona affetta da Covid-19 si trovano ad affrontare preoccupazioni e separazione. [] La cura e la protezione dei diritti umani negli ospedali psichiatrici e nelle residenze per le persone con demenza, luoghi dove l’infezione sarebbe difficile da controllare, devono far parte di qualsiasi risposta all’emergenza di salute pubblica».

I gravi pazienti psicotici paiono più impermeabili forse perché vivono spesso già in mondi psichici paralleli o in realtà di vita coartate, abituati alla solitudine e all’isolamento sociale. Il disagio psichico nei nevrotici si è invece decisamente scompensato con l’amplificazione di un’ansia generalizzata grazie alla segregazione coatta nei rapporti sociali con astensioni lavorative protratte a scopo terapeutico o anche solo preventivo. È inoltre documentato un aumento della violenza domestica, un maggior ricorso ad alcool, droghe e gioco d’azzardo e conseguente potenziamento della terapia farmacologica. Il quadro nel nostro paese è confermato dal prof. Mario Maj, direttore del Dipartimento di Psichiatria dell’Università Vanvitelli di Napoli: «Le autorità competenti – sottolinea Maj – debbono essere consapevoli di questa nuova emergenza che si sta profilando, e considerarla nei programmi per affrontare la “fase 2” della pandemia.[…] Da segnalare sono i quadri gravi di depressione, con vissuto di insopportabile preoccupazione per il futuro, in diversi casi giustificata dalla situazione finanziaria della famiglia» (Ansa, 8 maggio 2020).

Meno conosciute e nondimeno preoccupanti sono state le ricadute sulla sfera psichica negli stessi operatori sanitari con inevitabili conseguenze che saranno più evidenti nel tempo. Il personale sanitario direttamente impegnato nei reparti Covid, anche per riconversione da altri incarichi, ha fatto leva sulle proprie risorse e fors’anche momentanee dissociazioni mentali, per affrontare il dolore, la paura e la solitudine dei pazienti e di loro stessi, altrettanto vulnerabili! Un lavoro massacrante, dotazioni inadeguate, tamponi non eseguiti, richieste incessanti, un rapporto impari fra l’elevato e crescente numero di morti e il tempo psichico per elaborarlo. «Troppe scelte cliniche e morali in un tempo troppo breve: la cosiddetta “compassion fatigue”, il carico emotivo della cura. Oltre a un supporto psicologico già messo in campo da varie istituzioni, ciò comporterà un’azione terapeutica a breve e lungo termine per affrontare il “trauma secondario”».[16]

Si registra dunque il rischio di un maggior burnout di cui già c’era forte allarme nella popolazione medica, come analizzato da alcune specifiche ricerche sul tema (Survey Ame-Associazione medici endocrinologi 2019 e 2020). I risultati di una recente ricerca promossa dalla Università Cattolica di Milano confermano che la pandemia da Covid-19 ha avuto un forte impatto sul benessere psico-fisico degli operatori sanitari: «Uno su tre mostra segni di alto esaurimento emotivo (la sensazione di essere emotivamente svuotati, logorati ed esausti) e uno su quattro moderati livelli di depersonalizzazione (ovvero, la tendenza a essere cinici, trattare gli altri in maniera impersonale o come “oggetti”, sentirsi indifferenti rispetto ai pazienti e ai loro familiari). Operatori maggiormente orientati verso l’engagement e la centralità dei pazienti e dei familiari si sentono invece maggiormente gratificati sul lavoro riportando, in generale, livelli di stress e burnout inferiori» (progetto “C.O.P.E.”, Centro EngageMinds Hub, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano).

Ciascuno è responsabile della salute degli altri

La pandemia ha infine reso ancor più attuale la questione della solitudine del medico, come l’arcivescovo di Milano Mario Delpini ha recentemente segnalato: «Una “solitudine malata” di fronte a un paziente-cliente che lo assedia con pretese e presunzioni e nella lotta contro una malattia “da manuale”, piuttosto che una sfida verso una persona sofferente nella sua irripetibile singolarità. […] Una “solitudine etica” per il dovere di testimoniare una visione dell’uomo e dei valori che ne presidiano la dignità, di fronte alla decisione “sulla vita”, sulla dignità, la proporzionalità delle cure, la ricerca e le sue metodiche. […] Una solitudine di fronte all’istituzione per non sentirsi riconosciuto nei propri diritti, non incoraggiato a mettere a frutto le proprie capacità, indifeso da ingiuste accuse, non protetto da aggressioni ingiustificate. […] Una solitudine del medico nella vita familiare e sociale, dove i ritmi di lavoro, l’impegno per l’aggiornamento e l’intensità dell’impegno professionale espongono al rischio di essere prosciugato e inaridito di fronte alle attese della famiglia e del contesto sociale.»[17]

L’emergenza sanitaria ha messo in luce infine la questione dell’ammissione a trattamenti intensivi e alla loro sospensione, provocando alcune Raccomandazioni che la Siaarti (Società italiana degli anestesisti e rianimatori) ha fissato in un documento del 6 marzo 2020: «L’allocazione in un contesto di grave carenza delle risorse sanitarie deve puntare a garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico: si tratta dunque di privilegiare la “maggior speranza di vita”. Il bisogno di cure intensive deve pertanto essere integrato con altri elementi di “idoneità clinica” alle cure intensive, comprendendo quindi: il tipo e la gravità della malattia, la presenza di comorbidità, la compromissione di altri organi e apparati e la loro reversibilità. Questo comporta di non dover necessariamente seguire un criterio di accesso alle cure intensive di tipo “first come, first served”. Tuttavia il dilemma etico sul “chi scegliere”, da sempre presente nella pratica clinica, non può essere risolto fermandosi al dato anagrafico e neppure arrestandosi alle ragioni di sostenibilità del servizio sanitario, ma riconoscendo al criterio clinico il più adeguato punto di riferimento. Il medico infatti, di fronte a scelte drammatiche e urgenti, deve decidere per quella persona e in quella precisa situazione il bene concretamente possibile, certamente evitando interventi terapeutici inutili, sproporzionati o esplicitamente rifiutati dal paziente, ma mai può agire contro l’interesse del paziente.» Occorre dunque educarsi a trovare sempre un punto di mediazione sapiente ed equilibrato, condiviso nel contesto plurimo delle sensibilità etiche presenti nella nostra società, come afferma mons. Andrea Manto, medico geriatra e presidente della Fondazione “Ut Vitam Habeant”: «Creando una nuova mentalità senza rassegnarsi al pensiero unico, sempre materialista, formando le coscienze a rispettare la vita umana pensandola come fine e mai come mezzo. L’idea miope e pericolosa che il razionamento o la scarsità delle risorse disponibili conducano a prefissare criteri di selezione della vita stessa vede la tutela della salute come un costo, mascherando un criterio di utilitarismo ed egoismo dietro l’urgenza della decisione clinica, in analogia con il triage che si opera in tempo di guerra o di catastrofi.»[18] L’impatto con l’epidemia ci ha fatto invece scoprire altri aspetti della nostra società e della vita che troppo spesso si danno per scontati. Ad esempio il fatto che ciascuno di noi è individualmente responsabile della salute degli altri e del bene comune molto più di quanto ordinariamente lo percepisca. Questa interdipendenza non dovrebbe mai consentire atteggiamenti superficiali e richiede perciò educazione sanitaria, cultura della prevenzione, responsabilità e rispetto delle regole della vita buona.

A conclusione di questa panoramica sui temi spinosi della sanità in tempo di Covid-19, sperando ci sia presto l’avvio a progetti concreti, faccio mie le parole del card. Dionigi Tettamanzi espresse nel 2015 in un Convegno Amci a Vercelli: «È auspicabile dunque il confronto e la collaborazione tra il mondo medico, il mondo economico e quello politico, senza evidentemente dimenticare il mondo morale e spirituale. Si tratta di “camminare insieme” verso una reale e più intensa solidarietà dentro il principio di sussidiarietà e, in realtà, di cambiare non solo la legislazione, ma la cultura, più radicalmente la coscienza morale! D’altra parte, se è necessario, il cambiamento non può lasciarci indifferenti o passivi, ma deve risvegliare e sollecitare la responsabilità di tutti e di ciascuno di noi. Qualcuno deve pur iniziare, rimettersi in gioco, inventare o re-inventare nuove strutture o regolamenti.»[19]

Alberto Cozzi

 Presidente Associazione medici cattolici italiani – Sezione di Milano

 

[1] M. Delpini, “Stimato e caro Dottore…”. Lettera a un medico, Centro Ambrosiano, Milano 2019, p. 6.

[2] Ivi, pp. 5-6.

[3] S. Garattini, Qualche idea per salvare e migliorare il Ssn, «Il Sole 24 Ore», 4 settembre 2019.

[4] Carlo Maria Martini, L’Etica dello Stato sociale, Roma – Università La Sapienza, 24 novembre 1999.

[5] O Mancin, Come è cambiato il lavoro del medico con la Covid, www.quotidianosanità.it, 26 aprile 2020.

[6] Ibidem.

[7] C. Vergani, G. Schiavi, Ancora giovani per essere vecchi, Ebook, Rcs Media Group, Milano 2014, pp. 118-119.

[8] Cfr. O Mancin, op. cit.

[9] Papa Francesco, Discorso alla plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 28 febbraio 2020, www.vatican.va.

[10] Ibidem.

[11] C. Rovelli, A lezione di umiltà: siamo fragili, ne usciremo uniti, «Corriere della Sera», 2 aprile 2020.

[12] C. Vergani, G. Schiavi, op. cit., pp. 23-24.

[13] La Babele dell’assistenza domiciliare in Italia: chi la fa, come si fa, Roma, 11-12 luglio 2017.

[14] M. Trabucchi, Dall’angoscia alla speranza: la clinica, la scienza, le comunità, «Psicogeriatria», Suppl. 1, n. 1, maggio 2020, p. 8.

[15] C. Vergani, G. Schiavi, op. cit., p. 119.

[16] V. Lingiardi, Medici e infermieri, come uscire dall’abisso, «La Repubblica», 3 aprile 2020.

[17] M. Delpini, Solitudine del medico, solitudine del malato, relazione al Convegno Amci, 1 febbraio 2020.

[18] C. Fassari, Coronavirus. «Una sfida immane che ci coinvolge tutti e che sollecita risposte nuove in campo medico, etico ed economico». Intervista a monsignor Andrea Manto, www.quotidianosanità.it, 16 marzo 2020.

[19] D. Tettamanzi, Oltre la spending review. Etica e solidarietà per una nuova alleanza al servizio del malato, Amci, Vercelli, 12 settembre 2015.