È stata, piuttosto, conseguenza dell’azione dei mezzi di comunicazione, una delle grandi forze propulsive della storia contemporanea che, amplificando e trasformando radicalmente l’immagine dei magistrati, li hanno resi apparenti competitori della classe politica.

In questa prospettiva, può sostenersi che alla sistematica “politicizzazione” dell’attività giudiziaria abbia contribuito, in modo decisivo, la spettacolarizzazione da parte dei media di molte iniziative giudiziarie, trasformate in una sorta di agone tra colpevolisti e innocentisti, tra “amici” e “nemici” di una tesi.

Si tratta di un fenomeno che deriva non solo dalla tendenza dei mass media a fornire una rappresentazione semplificata della realtà, imponendo, come notava Umberto Eco, “simboli e miti dalla facile universalità”, ma anche e soprattutto dalla incapacità di rappresentare i fatti giudiziari in una ottica che non sia quella mutuata dallo scontro politico.

La vivacità delle “tribune politiche” degli anni 70, animate dalle grandi contrapposizioni ideologiche sembra, così, paradossalmente, rivivere nei dibattiti televisivi in cui si fronteggiano le ragioni dell’accusa e quelle della difesa ed in cui, comunque, si discute di giustizia. In questa non larvata riconduzione da parte dei media dell’attività giurisdizionale al modello dell’attività politica, si coglie il senso profondo di un fenomeno di acculturazione, cioè di riduzione dei valori generali e delle culture particolari al modello di una cultura unica, dominata da paradigmi semplici, in cui non è possibile articolare alcun distinguo tra l’essere favorevole e l’essere contrario.

Questo metamorfosi dell’immagine del magistrato trova però radici profonde nella stessa trasformazione della società italiana in un ambito sempre più disciplinato dal diritto in ogni suo aspetto, anche il più remoto, e in cui il giudice è divenuto (evidentemente non per sua scelta) l’interlocutore “permanente” dell’individuo.

Luigi Ferrajoli notava in proposito che nelle democrazie costituzionali «non è più il diritto ad essere subordinato alla politica quale suo strumento, ma è la politica che diventa strumento di attuazione del diritto, sottoposta ai vincoli ad essa imposti dai principi costituzionali: vincoli negativi, quali sono quelli generati dai diritti di libertà che non possono essere violati; vincoli positivi, quali sono quelli generati dai diritti sociali che devono essere soddisfatti» (1).

La creazione di sempre più vasti ambiti compiutamente disciplinati dal diritto così, mentre da un lato ha enormemente implementato lo spazio dei diritti e delle pretese giustiziabili, dall’altro ha profondamente modificato il ruolo e la percezione sociale del giudice.

La stessa discrezionalità amministrativa, che in origine connotava l’azione della pubblica amministrazione non soggetta a vincoli, e che nello Stato liberale, in cui viene accolta la separazione dei poteri, trova il proprio fondamento e limite nella legge, ma comunque con ampi spazi riservati all’amministrazione, dopo l’adozione della Costituzione del 1948 si troverà ad essere conformata da sempre più penetranti vincoli costituzionali e legislativi, al punto che non sono mancati autori che, prendendo atto di questo imponente sviluppo, hanno considerata superata la stessa nozione di merito amministrativo (2).

A ben vedere, quindi, se la spettacolarizzazione dei media rende il giudice (spesso suo malgrado e, comunque, a prescindere dal reale rilievo delle vicende) protagonista sui mezzi di comunicazione, il vero trionfatore di questi ultimi 75 anni è in realtà, almeno in Italia, il diritto, che manifesta una tendenza a tal punto pervasiva da poter trovare compiuta spiegazione solo nella reazione alla profondissima crisi di legalità che ha accompagnato, invece, nella prima metà del Novecento, l’affermazione dei regimi totalitari.

Di questo tragico conflitto tra diritto e potere nel XX secolo (3) e dei gravissimi rischi legati all’asservimento della magistratura al potere politico Piero Calamandrei è stato acuto osservatore, schierato sempre dalla parte della magistratura, di cui evidenziò il ruolo cruciale nel garantire la giustizia e nel difendere la legalità.

In un articolo del 2006, il Prof. Augusto Barbera, oggi Presidente della Corte costituzionale, ha analizzato la battaglia su più fronti combattuta da Calamandrei per l’ordinamento giudiziario, evidenziando la modernità della sua riflessione giuridica e politica (4) e accogliendo, nelle conclusioni del suo saggio, la considerazione di Vittorio Denti secondo cui “i problemi di Calamandrei sono in gran parte ancora i nostri problemi“(5).

Per comprendere senza equivoci e appieno questa affermazione, che a qualcuno potrebbe sembrare altrimenti quasi paradossale, bisogna muovere da una ricostruzione che, per quanto sommaria, ci dia effettiva contezza della cornice normativa e ordinamentale in cui operava la magistratura italiana nella seconda metà dell’Ottocento.

Chi sono i magistrati che rendono giustizia nelle aule di udienza dell’appena costituito Stato italiano? Come sono stati selezionati? Che ideali hanno e quale è il loro rapporto con la classe dirigente e politica in quel momento al potere?

La carta costituzionale dell’epoca, lo Statuto Albertino, e l’ordinamento giudiziario del 1865, che riprende in gran parte quello fatto approvare nel 1859 da Urbano Rattazzi, non stabiliscono particolari garanzie a favore della funzione giurisdizionale e dei magistrati chiamati ad esercitarla. Tutt’altro.

Lo Statuto, proclamando che la giustizia emana dal Re ed è amministrata in suo nome dai giudici che egli istituisce, nega ogni fondamento come autonomo potere alla giurisdizione, facendone, in sostanza, un settore specializzato della pubblica amministrazione e, pur stabilendo l’inamovibilità dei magistrati, la limita ai soli giudici di tribunale con almeno tre anni di esercizio delle funzioni. Inoltre, questa garanzia viene intesa in senso restrittivo, limitatamente al solo esercizio delle funzioni, e non assicura, quindi, la permanenza nella sede di servizio, da cui il magistrato può essere sempre trasferito dal Ministro della Giustizia.  Quanto poi alla selezione iniziale ed alla progressione in carriera i poteri conferiti al Guardasigilli appaiono ancora più incisivi.

Si entra in magistratura, infatti, per nomina diretta da parte del Ministro (che può scegliere, però, solo nell’ambito di alcune categorie qualificate) oppure con il superamento di un concorso pubblico a cui possono partecipare i laureati in giurisprudenza che abbiano già svolto la pratica di uditore per un anno (per i posti di pretore) o per tre anni (per i posti di giudice di tribunale e di sostituto procuratore) (6).

Pure di competenza del Ministro e sempre ampiamente discrezionali sono le promozioni e le nomine negli incarichi direttivi. La situazione, a distanza di oltre trenta anni dall’entrata in vigore di quell’ordinamento giudiziario, è così efficacemente descritta da Giovanni Giolitti in un suo discorso elettorale del 1897: «al governo restano i seguenti poteri sulla magistratura. Dei pretori dispone liberamente, senza alcuna garanzia. I magistrati sono stati nominati dal governo; le promozioni loro dipendono per intero dal governo; il governo può negare loro qualsiasi trasferimento; è il governo che determina le funzioni a cui ciascun magistrato deve essere addetto» (7).

Anche nel settore della giurisdizione, il giovane Regno d’Italia si è dovuto, evidentemente, confrontare con le difficoltà derivanti dal rapidissimo processo di unificazione.

È così accaduto che molti dei magistrati dei vecchi Stati preunitari fossero mantenuti nell’esercizio delle funzioni già svolte in precedenza e che si sia proceduto all’epurazione soltanto di quelli considerati inaffidabili per il nuovo ordine politico.

Complessivamente sono circa 1.000-1.200 i nuovi magistrati reclutati fra il 1859 e il 1865, ma solo la metà di questi vanno in realtà a coprire le vacanze determinate dalle epurazioni o dalle volontarie dimissioni di quelli non in linea con il nuovo ordine (8).

Nonostante queste premesse, sarebbe sbagliato immaginare, nell’Italia di quegli anni, una magistratura totalmente subordinata al potere esecutivo, composta solamente di burocrati interessati soprattutto, se non esclusivamente, al felice progresso della propria carriera.

Pur senza esagerare il significato ed il valore di singoli episodi, non vanno infatti dimenticati i momenti di difficoltà che segnano periodicamente i rapporti tra il Governo e la Magistratura.

Emblematico il caso di Diego Tajani, un magistrato piemontese di origine calabrese, che, nominato Procuratore generale di Palermo, dopo aver chiesto il rinvio a giudizio del Questore e di molti funzionari di polizia di quella città, accusati di essere conniventi con la malavita locale, si era visto costretto alle dimissioni, in conseguenza dei contrasti intervenuti con il Governo. Sebbene l’episodio non possa essere generalizzato ed abbia un significato che va circoscritto e compreso anche nell’ambito delle dinamiche politiche dell’epoca (Tajani diverrà Ministro Guardasigilli con l’avvento al governo della Sinistra) (9), è indubbio che, in quegli anni, il senso di indipendenza e la consapevolezza del rilievo della funzione esercitata fosse molto vivo in una parte non trascurabile della magistratura italiana.

A impedire che le periodiche “frizioni” tra magistratura e potere esecutivo potessero scadere in veri e propri conflitti istituzionali vi era, però, oltre che una cornice normativa priva di alcuna specifica guarentigia costituzionale dell’indipendenza dei giudici, anche la sostanziale omogeneità sociale e culturale della magistratura con la classe dirigente del paese (la metà dei ministri della giustizia nominati fra il 1861 e il 1900 proviene dai ranghi della magistratura e nel 1866, ben 27 su 43 alti magistrati in servizio fanno anche parte del Parlamento) (10). Il che non impediva, anzi forse talvolta alimentava, episodi di evidente dissonanza, in cui il ruolo della magistratura sembrava assumere un rilievo ulteriore rispetto a quello strettamente giurisdizionale e, quindi, una specifica valenza politica.

A questo proposito non può non essere rammentata la decisione con cui il 20 febbraio 1900 la Corte di Cassazione di Roma giudicò nullo il cd. decreto Pelloux, che aveva introdotto alcune significative limitazioni delle libertà di associazione, di riunione e di stampa.

Aldilà dell’atteggiamento prudente tenuto dalla Suprema Corte nella motivazione della sentenza, con cui ci si limitava a rilevare l’incostituzionalità del decreto legge sotto un profilo meramente formale, legato alla violazione della norma dello Statuto che richiedeva l’approvazione di entrambe le Camere per il perfezionamento e l’esistenza delle leggi dello Stato, è innegabile il ruolo con ciò assunto dal potere giudiziario nella soluzione della complessa crisi politico-istituzionale di fine secolo (11).

Questi episodi consentono anche di chiarire come, per tratteggiare efficacemente la situazione della magistratura italiana di quegli anni, non ci si possa limitare solo alla considerazione del dato normativo, da cui emergerebbe il disegno di una categoria fortemente gerarchizzata, in cui l’avanzamento in carriera, il trasferimento nelle sedi desiderate e le iniziative disciplinari dipendono esclusivamente dalle decisioni del Ministro. In realtà non mancano, invece, chiare tendenze in senso opposto e la burocratizzazione dell’apparato giudiziario viene già avvertita da molti giuristi, tra cui lo stesso Calamandrei, come un disvalore ed un concreto rischio per il paese.

In un famoso articolo del 1894, Lodovico Mortara, celebrato docente universitario destinato a divenire Presidente della Corte di Cassazione e, successivamente, Ministro della Giustizia, tratteggia con sarcasmo e commiserazione la regressione a mero burocrate del magistrato, facendola percepire al lettore, al di là dei limiti della normativa e della temperie culturale dell’epoca, come il vero peccato mortale della giurisdizione.

Vedeteli”, scrive Mortara, “i nostri magistrati, nelle preture, nei tribunali, nelle corti d’appello. Li sorprenderete più di una volta chini e cogitabondi su di un libro. Pensate che meditino il codice, o un qualche famosissimo commentario? Vi ingannate. Quel libro, l’unico libro che non manca mai alla biblioteca del magistrato italiano, è la Graduatoria, stupenda trovata della ignoranza ufficiale che regna sovrana nell’Italica amministrazione. E il magistrato che studia quel libro, si assorbe in calcoli e combinazioni che a noi profani, quando udiamo esporli, ricordano esattamente la cabala del lotto” (12).

La situazione evocata da Mortara, riflette, peraltro, uno stadio già avanzato dell’ordinamento giudiziario, caratterizzato dalle modifiche introdotte in materia dalla legge 8 giugno 1890, n. 6878 (la cd. legge Zanardelli), che aveva reso obbligatorio il superamento di un concorso pubblico per accedere alla magistratura. La costituzione in Italia, alla fine dell’ottocento, di un corpo professionale di magistrati, con i caratteri di un’organizzazione burocratica, fortemente gerarchizzata, ma anche gelosa custode di alcune sue prerogative, si può forse datare proprio da quel provvedimento legislativo e potrebbe essere comprovata anche dalla scarsissima frequenza con cui, successivamente al 1890, i Ministri della Giustizia esercitarono la facoltà, che la legge Zanardelli non aveva intaccato e di cui in passato si erano, invece, molto frequentemente avvalsi, di nominare direttamente in Corte di Appello o in Corte di Cassazione professori universitari e avvocati con una certa anzianità professionale. In questo medesimo senso, di costituzione della magistratura italiana come vero e proprio gruppo di pressione, in grado di condizionare (almeno in parte) le scelte della politica, può essere interpretato anche il rafforzamento delle garanzie della magistratura attuato da Vittorio Emanuele Orlando con le leggi n. 511 del 1907 e n. 438 del 1908 ed il quasi contemporaneo costituirsi a Milano, nel 1909, dell’Associazione Generale dei Magistrati Italiani (A.G.M.I.) (13).

La riforma voluta da Orlando, ministro della Giustizia di Giolitti, estendeva la garanzia dell’inamovibilità dei giudici anche alla sede dove prestavano servizio e, soprattutto, istituiva un nuovo organismo, il Consiglio Superiore della magistratura che, composto per la metà dei suoi membri da magistrati delle cinque Corti di Cassazione del Regno, veniva chiamato a rendere un parere, sia pure non vincolante, sulle promozioni e sui trasferimenti dei magistrati, allo scopo di orientare la discrezionalità del Ministro in materia, precostituendo dei criteri interni alla categoria per lo  svolgimento delle carriere.

L’istituzione di questo organismo consultivo del Ministro, profondamente diverso da quello che sarà poi previsto dalla Costituzione repubblicana, raccoglieva, peraltro, una suggestione del già ricordato Lodovico Mortara che, in un famoso saggio del 1885, “Lo Stato moderno e la giustizia”, denunciando la situazione di dipendenza della magistratura nei confronti dell’esecutivo, aveva auspicato la creazione di un “Consiglio superiore di giustizia composto, al principio di ogni legislatura, di deputati, senatori, consiglieri di cassazione civile e cassazione penale, in numero uguale per ciascheduna delle tre categorie, cui il ministro presiederebbe senza voto” (14).

Questa, in sommi capi, la situazione complessiva della giustizia che suscitava in quegli anni, come visto, critiche e preoccupazioni tra i giuristi più avvertiti, tra cui, appunto, Calamandrei che, anzi, dopo aver assistito al congresso dei magistrati italiani a Firenze, tenne nel novembre del 1921, in piena e profondissima crisi dello Stato liberale, un famoso discorso sul tema “Governo e magistratura”, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Siena.

In quell’occasione Calamandrei si sofferma, in particolare, sulle ” tortuose vie …che la politica segue per far sentire il suo influsso sull’amministrazione della giustizia” e denuncia pubblicamente che solo “la magistratura, continua a battersi quotidianamente per la legalità, simile a un eroico esercito di veterani fedeli, che mentre nel paese le congiure politiche depongono il vecchio sovrano, continuano lungo il confine, fronte al nemico, ad immolarsi in nome di un re che più non regna” (15).

È evidente il ruolo che Calamandrei attribuisce alla magistratura e alla giurisdizione, individuati, a poco meno di un anno dalla Marcia su Roma, come indispensabili garanti della legalità e dell’individuo, in una prospettiva che non appare troppo dissimile da quella di Simone Weil, che descriveva la Giustizia come un’«eterna fuggitiva dal campo dei vincitori», e da quanto notava, in tempi più recenti, Luigi Ferrajoli, secondo cui: «la giurisdizione è sempre applicazione sostanziale di un diritto pre-esistente, argomentabile come legittima e giusta solo se in base a tale diritto ne sia predicabile la “verità” processuale sia pure in senso intrinsecamente relativo. Di qui il suo carattere anti-maggioritario: nessun consenso di maggioranza può rendere vero ciò che è falso o falso ciò che è vero» (16).

Proprio sotto il profilo della legalità il pensiero di Calamandrei conoscerà, però, una significativa evoluzione, segnata dall’esperienza personale durante il fascismo e dalle nuove prospettive che al diritto apre l’entrata in vigore della Costituzione nel 1948.

Nel recensire nel 1942 il saggio di Lopez de Oñate su “La certezza del diritto” Calamandrei aveva, infatti, rimarcato che «la scienza giuridica deve mirare soltanto “a sapere qual è il diritto”», evidenziando che il giurista, avvocato o giudice che sia, chiamato ad applicare una legge che moralmente gli ripugna: «sarà portato, pur senza potersi apertamente ribellare ad essa, ad attenuarla, ad aggirarla, a introdurvi distinzioni e riserve, volte a farle impaccio e ad impedirle di nuocere» e che, però, così facendo «cesserà di essere un interprete della legge», agendo da politico e non più da giurista.

Il giurista, prosegue Calamandrei in quel saggio, «anche quando il contenuto della legge gli fa orrore, sa che nel rispettarla e nel farla rispettare quale essa è, anche se iniqua, si riafferma quell’ideale di uguaglianza e di reciprocità umana che vivifica e riscalda l’apparente rigidezza del sistema della legalità. E forse questo culto della legalità a tutti i costi, questo sconsolato ossequio delle leggi solo perché sono tali ed anche se il cuore le maledice e ne affretta col desiderio l’abolizione, ha una sua grandezza morale che raggiunge spesso, senza slanci apparenti, il freddo e meditato eroismo» (17).

Questo rispetto appassionato di Calamandrei nei confronti della legalità formale andrà però incontro, alla luce degli eventi storici, a un significativo ripensamento che lo condurrà al culto di una ben diversa legalità, quella legalità costituzionale, a cui tanto contributo dette in prima persona, che non può essere incrinata, nei suoi princìpi fondamentali, neppure dal legislatore.

Nella sua arringa dinanzi al Tribunale penale di Palermo nel processo a carico di Danilo Dolci, arrestato il 2 febbraio 1956 per aver promosso e capeggiato, insieme con alcuni suoi compagni, una manifestazione di protesta contro le autorità che non avevano provveduto a dar lavoro ai disoccupati della zona, Calamandrei affermerà che:  «Le leggi sono  vive perché  dentro queste  formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo  […] altrimenti, le leggi non  restano che  formule vuote», aggiungendo che «La  funzione dei giudici, meglio che quella di difendere una  legalità  decrepita, è quella  di creare  gradualmente la nuova legalità  promessa dalla Costituzione» (18).

Nella nuova prospettiva della legalità promessa dalla Costituzione risulteranno comprese anche alcune delle proposte avanzate da Calamandrei, ma non accolte all’esito del dibattito svoltosi in seno all’Assemblea Costituente, tra cui va rammentata quella relativa alla esplicita ammissione delle donne in magistratura.

Solo nel 1965, quasi dieci anni dopo la morte di Calamandrei, otto donne prenderanno, finalmente, servizio in magistratura.

A rendere possibile la partecipazione al concorso era stata l’entrata in vigore della legge 9 febbraio 1963, n. 66 che consentiva l’accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, e che dava attuazione alla sentenza n. 33 del 1960 della Corte costituzionale, con cui era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicassero l’esercizio di diritti e di potestà politiche.

«Non può essere dubbio», aveva affermato la Corte costituzionale in quella sentenza, «che una norma che consiste nello escludere le donne in via generale da una vasta categoria di impieghi pubblici, debba essere dichiarata incostituzionale per l’irrimediabile contrasto in cui si pone con l’art. 51, il quale proclama l’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive degli appartenenti all’uno e all’altro sesso in condizioni di eguaglianza. Questo principio è stato già interpretato dalla Corte nel senso che la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa, non può comportare, cioè, un trattamento diverso degli appartenenti all’uno o all’altro sesso davanti alla legge. Una norma che questo facesse violerebbe un principio fondamentale della Costituzione, quello posto dall’art. 3, del quale la norma dell’art. 51 è non soltanto una specificazione, ma anche una conferma».

Sul ruolo di Calamandrei nell’attuazione della Costituzione italiana si è scritto e si potrebbe, ancora, scrivere moltissimo.

Concludiamo queste brevi riflessioni, notando che a Lui dobbiamo soprattutto questo: averci insegnato il rispetto della legalità, anche nei frangenti più difficili, avendo però sempre di mira i valori profondi che la animano, nella consapevolezza che il giurista deve essere sì un «osservatore umile ed attentissimo», ma anche il soggetto a cui spetta «dare agli uomini la tormentosa, ma stimolante consapevolezza che il diritto è perpetuamente in pericolo, e che solo dalla loro volontà di prenderlo sul serio e di difenderlo a tutti i costi dipende la loro sorte terrena, ed anche la sorte della civiltà» (19).

Stefano Amore

Magistrato, assistente di studio presso la Corte costituzionale

 

  • Ferrajoli, “Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana”, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 11.
  • Sul superamento della nozione di merito amministrativo come conseguenza dell’assoggettamento della pubblica amministrazione al principio di legalità si possono consultare B. Gilberti, “Il merito amministrativo”, Padova, 2013 e L. Benvenuti, “Breve divagazione in tema di merito amministrativo. A proposito di un libro recente”, in Diritto pubblico, 2016, fasc. 2, 795 ss.
  • Greco “Una lotta (quasi) mortale. Diritto e potere nel Novecento giuridico” in Novecento del diritto, a cura di Adriano Ballarini, 2019, Giappichelli, Torino.
  • Barbera “Calamandrei e l’ordinamento giudiziario: una battaglia su più fronti”, Relazione al Convegno “Piero Calamandrei e la ricostruzione dello Stato democratico” Aula Magna dell’Università di Firenze, 18 febbraio 2006, quindi in «Rassegna parlamentare», 2006, p. 359 ss.
  • Denti, “Calamandrei e la Costituente: il progetto e il dibattito sul potere giudiziario”, p. 416.
  • Guarnieri “Magistratura e sistema politico nella storia d’Italia” in Raffaele Romanelli (a cura di), “Magistratura e potere nella storia europea”, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 264 e ss.
  • Giolitti, Discorsi parlamentari, vol. II, Roma 1953, p. 1175 (discorso di Caraglio agli elettori del 7 marzo 1897).
  • Guarnieri op. ult. cit., p. 242 ss.
  • Su Tajani, tra gli altri, si possono leggere i contributi di P. Saraceno, Diego Tajani, in AA.VV., Il Parlamento italiano, Milano, 1988, p. 391 ss. e F. Grispo, Vincenzo Calenda di Tavani magistrato e ministro del Regno d’Italia, in P. Saraceno (a cura di), I magistrati italiani dall’Unità al fascismo, pp. 71-120.
  • Guarnieri op. ult. cit., p. 246.
  • Meccarelli, La questione dei decreti-legge tra dimensione fattuale e teorica, in Historia Constitucional (revista electrónica), n. 6, 2005.
  • Mortara “Un pericolo sociale: la decadenza della magistratura”, in “Riforma sociale”, 1894, vol. 2, p. 625. Citato da F. Venturini in La magistratura nel primo dopoguerra: alla ricerca del “modello italiano”, «Le carte e la storia», 13 (2007), n. 2, p. 157.
  • Venturini, “Un sindacato di giudici da Giolitti a Mussolini. L’Associazione generale fra i magistrati italiani 1909-1926”, Bologna, Il Mulino, 1987.
  • Mortara, “Lo stato moderno e la giustizia. Altri saggi”, Edizioni Scientifiche Italiane, Biblioteca di diritto processuale, 1992.
  • Calamandrei “Governo e magistratura”, in Opere giuridiche, a cura di Mauro Cappelletti, vol. II, Morano, Napoli, 1966, p. 195. Ampiamente analizzato da A. Barbera in op. ult. cit.
  • Ferrajoli,“Contro la giurisprudenza creativa”, p. 25, in Questione Giustizia, n. 4 del 2016, numero monografico dedicato a “Il giudice e la legge”
  • Calamandrei “La certezza del diritto e le responsabilità della dottrina”, pubblicato originariamente nella Rivista di diritto commerciale, 1942, I, 341, ripubblicato in Studi sul processo civile, V, Padova, 1947, ora in F. Lopez de Onãte, “La certezza del diritto”, Milano, Giuffré, 1968, p. 175 ss.
  • Riportato da G. Zagrebelsky, “Una travagliata apologia della legge”, in P. Calamandrei, Fede nel diritto, Roma-Bari, Laterza, 2008. Sul tema importanti le riflessioni di P. Grossi, “Calamandrei e l’assillo della legalità”, in Stile fiorentino. Gli studi giuridici nella Firenze italiana (1859-1950), Milano, Giuffrè, 1986.

P. Calamandrei “La certezza del diritto e le responsabilità della dottrina”, op. cit., p. 190. Per un complessivo quadro di insieme sul tema dell’evoluzione del diritto e sul suo ruolo nelle società moderne e contemporanee si veda M. Ascheri “Introduzione storica al diritto moderno e contemporaneo”, Seconda edizione riveduta, Giappichelli, 2023