Johnson costretto a lasciare, con un paese a pezzi

Johnson costretto a lasciare, con un paese a pezzi

Siamo sempre più abituati all’accorciamento dei tempi della Politica. E soprattutto di quelli dei suoi attori. Traiettorie vissute intensamente, sempre sul filo della personalizzazione, che s’interrompono subitaneamente nello spazio di poco. Noi italiani ci siamo abituati da un pezzo. Soprattutto nella parte finale della stagione della cosiddetta Seconda repubblica. Quando, dopo la scomparsa dell’accoppiata rivale Berlusconi – Prodi, abbiamo cominciato a scorgere nel cielo il corso di meteore che sembravano, all’apparire, destinate quasi a sovrapporre la loro luce a quella del Sole. E poi, invece, ridursi a ruotare attorno alla Terra della politica nostrana, ma senza più carica esplosiva. Eppure, fino al pomeriggio precedente vedevamo i manifesti in cui le sigle dei loro partiti divenivano annotazioni quasi marginali rispetto ai ben più rilevanti nomi degli interessati.

Abbiamo così seguito subitanee salite e ridimensionamenti: di Mario Monti, di Matteo Renzi, di Matteo Salvini, di Luigi Di Maio. Il “meteorismo”, quello stellare, ha interessato anche movimenti, partiti e proposte politiche: il populismo e il “vaffismo” dei 5 Stelle e il sovranismo leghista. Resta tenace, ahinoi!, solo l’astensionismo. Che, del resto, possiamo considerare il frutto diretto di roboanti annunci, promesse, risse, demagogia, incapacità politica che tanto hanno caratterizzato gli ultimi anni, se non decenni.

In qualche modo, c’è un  parallelismo con quel che sta vivendo a Londra Boris Johnson. Non è che la Politica del Regno Unito sia proprio l’emblema del piattismo e della noia cui siamo soliti fare riferimento. Quella dei britannici non è affatto politica banale. Nei secoli passati vi sono state lotte feroci. Ma senza allontanarci dall’era moderna, anche in essa troviamo infatuazioni tramutate in improvvise fine di carriere. Neville Chamberlain con la sua svolazzante carta di pace firmata da Adolf Hitler, Winston Churchill giubilato dalla sera alla mattina dopo cinque anni di vittoriose “lacrime e sangue”. E poi la signora Thatcher: disarcionata dopo avere appena battuto ogni record di permanenza a Downing Street. Tutti esempi di come in pochi passaggi finisca un’epoca e, con essa, i personaggi che l’hanno interpretata. E tutto è legato, checché banalizzino i giornali o i commentatori televisivi, a fenomeni culturali, sociali e politici troppo spesso sottovalutati dall’enfatizzazione delle questioni personali.

Quasi all’improvviso, decine e decine di ministri dimissionari hanno lasciato il governo di Johnson più praticando lo sport della sopravvivenza personale, che unisce e rende simili tanti uomini politici in tutte le parti del mondo, che prendendo le distanze dalla politica del Primo ministro britannico, cui pure, tra l’altro, avevano appena assicurato la propria fiducia pochi giorni orsono.

Johnson è durato veramente poco in un paese che vive di stabilità e di continuità. Non è stato abbandonato solamente per i recenti scandali che l’hanno travolto. Per inciso, cose che in Italia non sarebbero state prese neppure in considerazione visto che riguardano una bevuta di birra con il suo staff di Downing Street in pieno coprifuoco per la pandemia e le non proprio commendevoli propensioni di gente che lui ha voluto a posti di relativa responsabilità governativa.

C’è da chiedersi, invece, quanto la parabola di Johnson non sia da considerarsi all’interno di ciò che ha significato la radicalizzazione delle posizioni su questioni vitali per il suo paese. Dopo Trump, è il secondo grande simbolo mondiale del sovranismo che perde il posto conquistato proprio grazie all’esaltazione di quell’idea estremizzata, destinata inevitabilmente a scontrarsi con la complessità delle cose del mondo. Vedremo cosa accadrà al terzo, quel Bolsonaro brasiliano che sta per giungere all’appuntamento con l’elettorato che gli rimprovera tutti i morti provocati dal suo “negazionismo” della Covid cui si è aggiunta la pesante situazione economica che ne è seguita.

A Boris Johnson non è servito a molto cavalcare il clima di guerra che viviamo. Al presentarsi come uno dei principali alfieri dello scontro estremo con la Russia e della riproposizione di una  rinverdita visione mondiale che egli ha provato a ritagliare per il Regno Unito, il suo governo e se stesso. La situazione di estrema crisi internazionale non è riuscita ad oscurare i tanti problemi interni esplosi dopo la Brexit, e a causa delle conseguenze della guerra di Ucraina che ha fatto aumentare  i prezzi e crescere l’inflazione anche nel Regno Unito, nonostante i pozzi di petrolio del Mare del Nord. Non gli è servito prospettare la possibilità di recuperare, grazie al rilancio della Nato, il terreno perduto con l’uscita dall’Europa. L’Ucraina non ha avuto per lui il ritorno che le Falkland, Malvine per gli argentini, ebbero per la signora Thatcher.

Secondo alcuni, con la defenestrazione di Johnson si prendono la rivincita anche molti di quei conservatori che non credono più nell’autoreferenzialità e nell’autosufficienza britannica. Quelli che, comunque, non hanno gradito l’impronta che alla Brexit, giocata tutta in maniera muscolare, ha voluto dare il pur innamorato della cultura e delle altre lingue europee come Johnson è. Gli muovono gli stessi rimproveri avanzati da Bruxelles: non aver spiegato bene quali sarebbero stati i contraccolpi conseguenti all’uscita dall’Europa. Adesso, buona parte del mondo imprenditoriale, in stragrande maggioranza conservatore, sempre più a viva voce, denuncia  le conseguenze dell’isolamento dal Vecchio continente, gli aumenti dei dazi, in entrata e in uscita, la mancanza di quella manodopera in gran parte assicurata dai paesi partner dei 27 e le difficoltà della logistica e dei trasporti. Così, la City di Londra, preminente piazza finanziaria mondiale, che non voleva la Brexit ha subito salutato l’addio di Johnson con un balzo delle quotazioni azionarie. The Economist questa mattina addirittura invita Johnson a lasciare subito Downing Street per le condizioni disastrose in cui è finito il Regno Unito.

E tutto questo avviene nel pieno della crisi ucraina la quale, se da un lato, sembra rinverdire i fasti dell’immagine della potenza britannica nucleare ed intercontinentale, cosa che fa ritrovare il Regno Unito persino ricatapultato nella propria secolare area “imperiale” per eccellenza dei secoli scorsi, quale fu quella indo-pacifica, al tempo stesso rivela quanto il ritorno al passato non avvenga sulla base di un rapporto paritario con il grande alleato: gli Stati Uniti.

Così, la linea di Boris Johnson si trova, da un lato, finita allo scontro estremo con gli europei, mentre gli Stati Uniti interpretano le vicende ucraine all’interno di una loro esclusiva visione mondiale in cui, semmai, Washington deve risolvere la diversità di opinioni con gli europei che oggi contano, cioè Francia e Germania. In un tale contesto, la posizione del Regno Unito rischia di essere sostanzialmente marginale, al di là di ogni retorica e dichiarazione stentorea. E non è detto che la “riscoperta” della Nato, che Londra prova ad indicare prevedendone la dilatazione fino dall’altra parte del globo, agli immediati confini della Cina, serva agli interessi di un’isola il cui interlocutore più diretto ed immediato resta pur sempre la vecchia, amata, odiata Europa.

Giancarlo Infante