Ho doppiato Capo Horn…a nuoto!
Parlare di Terra del Fuoco ancora oggi per molti è sinonimo di avventura ai confini del mondo. In effetti il paesaggio e la natura sono di poco cambiati da quando i primi navigatori attraccarono alle coste più australi del Nuovo Mondo e l’inglese Charles Darwin visitò e descrisse questi luoghi nel corso del suo viaggio a bordo della motonave Beagle, comandata da Fitz Roy, anch’egli britannico.
Spazi immensi e isole dove crescono solo arbusti spinosi tra altipiani battuti da venti potenti. Coste interminabili, sulle quali approdano per la riproduzione numerosi tipi di uccelli, pinguini di Magellano, orche, otarie e leoni di mare. Acque in cui si ritira a partorire la balena franca australe. Lunghe baie dove in un giorno si susseguono i climi delle quattro stagioni. Montagne coperte di nevi e ghiacciai che spingono i loro fronti fino al mare o avanzano confluendo in laghi immensi, immersi nel cuore della cordigliera e circondati da boschi millenari. Molte località e montagne portano nomi italiani di navigatori e città.
Sembra quasi che tutto sia rimasto immutato dagli albori del mondo. Solo l’indio nativo è definitivamente scomparso nei primi anni del XX secolo, per lasciare il posto alle pecore dei colonizzatori europei. In un mondo dove la presenza dell’uomo più che sentirsi, si intuisce. Rari sono gli incontri, poche e disagevoli le vie di comunicazione. Le case sono basse per sfuggire alla forza del vento. Costruite di legno e lamiera ondulata, sembrano sottolineare la precarietà dell’insediamento umano. Città di frontiera, vissute secondo i più classici modelli urbanistici coloniali spagnoli, con la piazza centrale su cui si affacciano, simboli dei tre poteri canonici, la chiesa, il municipio e la centrale di polizia.
L’origine degli abitanti, in gran parte discendenti dei protagonisti delle grandi emigrazioni europee tra la fine del XIX secolo e l’immediato dopoguerra, traspare dalle vetrine dei negozi, dalle ricette dei ristoranti, dallo stile architettonico delle case e dall’aspetto fisico della gente. In un misto di culture, convivono tradizioni e costumi che il tempo non è riuscito completamente ad amalgamare.
Fuori dai centri abitati c’è lo spazio infinito della terra e del cielo australe. Una solitudine che, quanti non ci mai stati possono solo, con difficoltà, immaginare, tra il verde di alberi, faticosamente piantati a interrompere la piatta monotonia di grandi spazi. Questa è l’immagine stessa della frontiera, con i suoi aspetti romantici e avventurosi, ma soprattutto con la tradizione di ospitalità e generosità di chi vive semplicemente e ha il senso della vera solidarietà. Questo scenario è stato negli anni uno dei miei tanti banchi di scuola, nell’ambito del mio grande progetto di andare, imparare, capire e riferire in altri mondi, compreso il nostro occidente.
Come spesso è accaduto nella mia vita, mi sono preparato molto per andare a capire un mondo molto lontano. Un mondo estremo, dove la vita non è semplice e la lotta per la sopravvivenza darwiniana è ancora combattuta onestamente. Diversamente dalla nostra oramai divenuta quasi selvaggia. Un viaggio nel tempo, dunque, come tanti che ho realizzato, passando da un’ era all’altra e cercando di non subire nuovi traumi.
Prima cosa, dovevo immergermi nella vita quotidiana. Un ecosistema con al centro la natura, uomini, animali e vegetazione e il loro equilibrio millenario. Ho comunque privilegiato in questo caso il fattore umano, partendo dall’estinzione delle popolazioni native: parlo degli indios Ona che qui hanno vissuto per secoli fino a all’inizio dell’ottocento, quando arrivarono i primi navigatori europei alla ricerca di nuove terre e, soprattutto, delle loro ricchezze. Nel nostro pianeta, quasi sempre l’ignoranza e la sopraffazione hanno avuto la meglio sui nativi. Così, lentamente, gli Ona si sono estinti definitivamente: nel 1956, quando l’ultima donna anziana è spirata tra gli altipiani della Terra del Fuoco.
Sono stati tempi, per molti anni ancora, in cui l’ecologia non faceva notizia nei media internazionali. Da qui il mio impegno di trovare un sistema per fare conoscere lo stesso problema che avevo approfondito tra gli indiani del nord America. Cercai, tra le mie idee e testando le mie possibilità psicofisiche, di realizzare un’avventura e un gesto che potessero, appunto, fare notizia.
La scelta, un po’pazza, cadde nella decisione di doppiare, a nuoto, il leggendario Capo Horn, punta estrema del continente americano. Punto d’incontro tra l’Oceano Atlantico, il Pacifico e quell’Oceano Glaciale Antartico che a sud arriva a toccare le terre ghiacciate del grande continente bianco. Mitica punta, il Capo Horn, sogno di tutti i navigatori. Un gioco di onde fredde, pazzesco, pericoloso. Cimitero di molti velieri tragicamente affondati mentre cercavano di superarlo.
Mi ero allenato per più di un anno nel Mediterraneo, a Taranto, in Liguria e tra i ghiacci della Groenlandia. Infine nella stessa area di Ushuaia prima di tentare l’avventura. Avevo messo a punto una muta stagna di 7 millimetri di spessore e mi ero procurato e collaudato “pinne veloci”. Avevo un paio di pugnali, una maschera impenetrabile all’acqua marina. E tanta forza fisica, determinata.
Ma la situazione politica nella zona era difficile. Erano in atto conflitti sui confini geografici tra Cile, Argentina, con di mezzo la potente Inghilterra. Enorme la posta in gioco: le ambite materie prime sottomarine, ricchezza naturale delle Isole della Terra del Fuoco e delle zone adiacenti.
Non era così, certo, quello il momento di organizzare “un’avventura nell’avventura”, ma dovevo tentare di fare quello che nessun uomo mai si era neppure sognato di tentare. Una traversata a nuoto di circa sei chilometri nel punto più pericoloso del mondo per le grandi onde, le forti correnti dei “quaranta ruggenti”, il freddo degli “zero gradi”, le orche assassine e le balene.
Con l’appoggio del Governatore della Terra Australe Argentina, capitan Torre di origine Ligure, ho organizzato gli allenamenti nell’Arcipelago. Bisogna tenere presente che l’isolotto estremo di “Cabo de Hornos” è territorio cileno, quindi dovetti avvisare anche il Governo Cileno e le capitanerie di porto di Ushuaia in Argentina e di Punta Arenas in Cile, lungo il Canale di Magellano.
Dopo una bella serata con navigatori e subacquei argentini, nel pomeriggio del Primo Gennaio 1980 parto per l’sola di Capo Horn, nelle acque dove si incontrano i tre oceani, a bordo di un peschereccio argentino, reclutato come “nave appoggio”. Comincia l’avventura. Ci muovemmo da Ushuaia prima del tramonto. Poi, superata l’isola cilena di Navarino, siamo usciti nell’estremo spicchio meridionale dell’Oceano Atlantico dal Canale di Beagle. Giungemmo poi in vista di Capo Horn alle prime luci del mattino. Una collina scura a forma triangolare, alta 800, metri dove si trova anche un faro. Ci trovavamo al limite delle acque cilene e, come programmato, tra lunghe grandi alghe marroni mi calo di schiena in mare, ben preparato.
Comincio la mia traversata nuotando in stile misto, cercando di vedere dove andavo. Alcuni leoni marini in compagnia di trichechi mi affiancavano incuriositi, forse per capire se casomai fossi un loro parente! A un tratto vidi un peschereccio lontano. Non mi preoccupai, fino a quando il comandante ordinò al suo equipaggio di spararmi contro alcune granate, per fortuna senza colpirmi. Si trattava infatti, in barba a un tranquillo aspetto, di uno di quei “pescherecci armati” utilizzati dai militari di molte nazioni come pattugliatori nelle “zone calde”…anche se lì faceva molto freddo con l’acqua del mare al limite degli zero gradi.
Il motivo lo seppi dopo, a cose fatte. I militari cileni non erano, infatti, stati adeguatamente informati del mio programma e mi scambiarono per una pazza spia… un particolare che poi riuscii a chiarire tempo dopo durante un soggiorno a Punta Arenas, addirittura con il Generale Augusto Pinochet, in quel momento in visita presidenziale in Terra del Fuoco Cilena.
La traversata a nuoto, comunque, la feci tra mille difficoltà. L’acqua salata, gelata, mi danneggiò fortemente le gengive. Rimasi in mare tre lunghe ore. Poi rientrai sulla nave appoggio argentina. Fui accolto come un eroe. Ero stremato e felice, ma cominciavo già a sentirmi molto male. Ci vollero parecchie ore per tornare a Ushuaia. Stavo sdraiato sul ponte del peschereccio, protetto da coperte accanto a mucchi di gomene e reti per la pesca arrotolate. Non facevo che battere i denti, tremavo tutto e provavo un terribile dolore in bocca.
Arrivati finalmente nel porto, furono in molti a chiedermi del perché di questa pazzia. Sul molo c’era una troupe della tv argentina ad attendermi per intervistarmi. Mi feci forza, e risposi alle domande del cronista, temendo da un momento all’altro di crollar privo di sensi sulla banchina. La sera, il Telegiornale Argentino dette come prima notizia questo evento eccezionale.
Nell’intervista spiegai che questa avventura doveva fare da traino mediatico per far conoscere i motivi dell’estinzione del popolo degli Ona. Ona, il nome che avevano dato loro gli Yamana, i quali un tempo vivevano nei canali delle isole fino al Capo Horn e insieme agli Alakauf, abitatori dei canali delle isole cilene a Nord-Ovest della Terra del Fuoco.
Queste etnie formavano il gruppo dei cosiddetti “Fuegini marittimi”, occupanti le coste meridionali e occidentali e le isole minori dell’estremo Sud del continente americano. I Selk’nam, naturalmente purtroppo estinti anche loro, rappresentavano uno dei principali gruppi Ona e si dividevano a loro volta in due gruppi, quello settentrionale e quello meridionale, tra loro ostili. Sono stati tra gli ultimi a essere scoperti dai colonizzatori europei, nel XIX secolo.
Della nuotata in quelle acque australi, ricordo la mia faccia viola dal freddo. Rimasi “rifugiato” in camera d’albergo per 76 ore in stato assolutamente precario. Mi somministravano antibiotici a rotta di collo, amorevolmente assistito dall’infermiera argentina di nome Silvia, e, a turno, da uno dei due medici del posto. La febbre superava costantemente i 40 gradi, i dolori erano insopportabili. Erano tutti molto preoccupati che non ce la facessi a superare la crisi. Non si eran resi conto della robustezza del mio fisico, oltretutto super allenato! Dopo decine di iniezioni, al terzo giorno tutto si risolse per il meglio. Ma mi costrinsero a letto riguardato per un’intera settimana. Questa si che fu vera sofferenza!
Solo nelle settimane successive la completa guarigione. Dopo aver visitato la comunità italiana di Ushuaia, mi recai nella chiesa più australe del mondo, dedicata a Santa Maria della Mercedes. Sulla facciata collocai in seguito una lapide fatta fare in fretta da un artigiano ligure a ricordo del mio amico grossetano Mauro Mancini, giornalista del quotidiano “La Nazione” di Firenze. Un gesto per ricordare la sua morte a seguito del naufragio della barca di Ambrogio Fogar, il Surpraise, con cui navigava lungo le coste Atlantiche argentine quando furono affondati da una gigantesca Orca che si scagliò contro l’imbarcazione a vela dei due italiani.
Nell’occasione visitai poi anche l’isola degli Stati, dove si trova un “cimitero” di navi a vela che si erano schiantate sulle scogliere tentando di doppiare il Capo Horn. In certe baie si trovano ancora molti resti di tante tragedie.
In queste regioni australi hanno condotto esplorazioni, tra i tanti esploratori noti e meno noti, anche James Cook, Charles Darwin, Padre Alberto Agostini. Un discorso a parte merita il piemontese Giacomo Bove, il primo italiano a spingersi ai limiti del continente Antartico, che si occupò di esplorare il canale di Beagle, segnare i confini, e installare preziosi fari per facilitare la navigazione in acque tanto pericolose.
Bove, Tenente di Vascello della Regia Marina Italiana, era stato il primo a trovare il passaggio a Nord Est in Siberia, nel 1879, tra l’Oceano Atlantico e il Pacifico con la nave Vega utilizzata da una spedizione internazionale. Egli aveva un progetto per proseguire e avventurarsi in Antartide, ma non riuscì perché la Società Geografica italiana per cui compiva le esplorazioni non aveva più fondi.
Il ricordo della traversata a nuoto del Capo Horn rimane tra i miei più preziosi. Non credo che qualcuno l’abbia ripetuta, forse il record rimane. Oggi a Capo Horn, dove si trova una casa con un guardiano cileno, spesso attraccano barche di militari cileni e di turisti provenienti dalla Terra del Fuoco.
L’ultima visita in Ushuaia, dove poi sono tornato diverse volte, anche in tempi recenti, per l’amicizia che mi lega a Hector Monsalve, il “subacqueo più australe del mondo”, come egli stesso ama definirsi, è stata quella al Museo del Mar, e a quello degli Indios.
Per finire, e lo consiglio a quanti avessero il desiderio o un progetto di un viaggio alla “Fine del Mondo”, come ha definito il Sud dell’Argentina lo stesso Papa Francesco nel primo discorso ai fedeli subito dopo l’elezione, suggerisco di non perdersi una visita anche al Museo Australe, dove sono conservate piante e resti di animali della zona raccolti dai molti esploratori che si sono avvicendati in Terra del Fuoco.
Questa esperienza rimane una delle più belle, interessanti, una “pazzia razionale”, delle avventure finora vissute. Ma mi ha lasciato qualche segno fisico… ma anche questo era nel conto.
Franco Guarino