Dalle riforme alla trasformazione: partire dalla società – di Vincenzo Mannino

Il passaggio dalle riforme alla trasformazione come concetto guida per governare l’innovazione in Italia mi è sempre riuscito immediatamente persuasivo. Mi riferisco non solo alla innovazione scientifica e tecnologica, come si intende ordinariamente, ma alla innovazione anche civile, sociale, istituzionale. Ma in che modo la trasformazione può essere utilizzata come concetto politico operativo? Se questo non avvenisse finiremmo con il rimanere senza trasformazione e senza riforme. Dunque quali sono le proposte e le iniziative nelle quali potrebbe concretizzarsi la politica della trasformazione?
Tradizionalmente si parla della riforma della giustizia senza metterla in relazione con tutto il resto, se non con la esigenza di celerità, o con rilievi che pervengono dalle istituzioni europee, ma – per così dire – non con l’esigenza di maggiore o migliore giustizia. Così facendo rimane una questione per addetti ai lavori, magistrati, avvocati, studiosi, perché non c’è ragione di chiedere ai cittadini come si immaginano una giustizia soddisfacente, e infatti nessuno lo fa. Ma la riforma interessa la giustizia in se, la trasformazione esige di guardarla nella sua relazione con la società e con tutto l’ordinamento. La riforma viene discussa tra gli addetti ai lavori; l’approccio di trasformazione richiede una dibattito pubblico sugli obiettivi (ovvio che poi entreranno in campo gli specialistici).
Si parla anche del Terzo settore, come oggetto di politica. Intanto si deve essere consapevoli della inadeguatezza della terminologia. Terzo settore nasce per differenza. Non indica l’identità vitale e il perimetro potenziale. Perché non riflettere, politicamente, sulle nozioni di economia civile o di economia sociale? (non l’economia sociale di mercato, ma l’economia sociale che è il complesso dei soggetti che operano anche in economia con intenti sociali e sulla quale è imminente un Piano di azione dell’UE).
La riforma del Terzo settore infatti c’è già, forse con una denominazione datata, e potrebbe diventare una Sagrada Familia (una volta si sarebbe detto una Fabbrica di San Pietro).La legge 106/2016 ha ormai cinque anni e non è stata ancora completata la decretazione attuativa, mentre già si discute sul modificare qua e là. Ma di questo si occuperanno il Forum del Terzo Settore e le altre associazioni di rappresentanza interessate, le Direzioni generali dei Ministeri competenti e ovviamente le Commissioni parlamentari se necessario. Interessa la politica in senso pieno? Alla politica dovrebbe interessare sostenere l’espansione della sussidiarietà nel nostro paese, ben al di là degli ambiti attuali. La politica dovrebbe dare campo libero alla società civile e sostenerla incisivamente nel mettere mano a tanti bisogni che oggi sono orfani. Chi si occupa dei Neet oggi? (e quale miserrima percentuale di loro è finora raggiunta?). Sono più di due milioni i Neet tra i 15 e i 29 anni, non una malattia rara.
La sussidiarietà è il tema della politica e certamente anche la parte di essa già concretamente realizzata nel cosiddetto Terzo settore. La sussidiarietà riguarda le esigenze di tutti e anche l’impegno di tutti, anche di quelli che operano nel primo e nel secondo settore. Non va settorializzata.
Le riforme della scuola, dell’università, della formazione, vengono tradizionalmente ridotte a questioni di addetti ai lavori e destinate ad esiti mai completamente di successo. Infatti l’esito di tante riforme fatte è che in Europa primeggiamo per evasione dell’obbligo, per abbandono scolastico, per scarsità comparativa di laureati, per ritardo nell’allestire percorsi efficacemente professionalizzanti, e per alcuni aspetti di efficacia dell’istruzione.Se si ragiona sul singolo tratto di strada lo si appalta agli specialisti relativi. Se invece sottoponiamo al dibattito pubblico gli obiettivi e la visione del percorso complessivo che deve portare un bambino alla condizione adulta, e non solo di successo professionale, ma anche di responsabilità sociale e coscienza civile, allora la partecipazione alle scelte si fa ampia e diventa immediatamente insopportabile la persistenza di una scuola, che non assicura risultati comparabili con quelli dei paesi con i quali ci confrontiamo.
Di quando in quando si sente parlare di classi pollaio, quando le nostre aule vanno allo svuotamento: nel 2035 i quindicenni saranno circa 150.000 in meno degli attuali (non è una previsione: sono quelli nati l’anno scorso e sappiamo bene quanti sono).
Ma la vita di molti ragazzi e giovani dice che non è vero che meno siamo meglio stiamo. Anzi. Un profondo ripensamento e un investimento potente nel diritto allo studio sono una condizione decisiva.
Aggiungo, con espressioni non originali, che l’organizzazione del percorso educativo è il dito con il quale si indica il futuro di un popolo. Dove tende la scuola, lì si è deciso di andare. Dunque non è vero che il dito non sia da guardare, anzi. Ma è a partire dallo scopo condiviso e prescelto che si costruiscono condizioni, percorsi e apparati idonei a perseguirlo.
Altrimenti come parlare di trasformazione, senza sapere in che cosa ci si vuole trasformare? Insomma, le riforme vengono progettate dagli addetti ai lavoro (e talora anche per mano loro falliscono). Le innovazioni trasformatrici vanno disegnate nella società, dagli operatori e dagli utenti insieme, devono essere il frutto di processi deliberativi estesi, della più elevata partecipazione possibile. Devono partire da visioni e obiettivi.
Può essere questo un primo schizzo della traccia per rendere operativa la trasformazione?
Vincenzo Mannino