Lo sviluppo e un “green deal” italiano – di Giuseppe Sabella

PREMESSA

Dal secondo dopoguerra, quando l’Italia è entrata a pieno titolo tra le economie più avanzate, lo ha fatto

perché ha saputo sfruttare il suo ingegno più di ogni altra risorsa. Non abbiamo mai avuto un sottosuolo

particolarmente ricco, ma siamo sempre stati abili nella trasformazione delle materie prime che, in buona

parte, abbiamo importato. Siamo stati protagonisti di uno sviluppo importante, tanto da ritrovarci tra i 7

Paesi più industrializzati; non solo, il Made in Italy è riconosciuto in tutto il mondo come marchio di

eccellenza e l’Italia resta ancora oggi la seconda potenza manifatturiera d’Europa dopo la Germania.

Quando diciamo “industria” ci riferiamo a quel settore della nostra economia che contribuisce al 17% del

nostro PIL – rispetto ad una media europea che si attesta attorno al 15% – e che, attraverso la domanda dei

servizi, arriva fino al 60%. Gli investimenti in R&S si fanno quasi interamente (80%) all’interno del sistema

industriale di cui una buona parte grazie alle imprese partecipate dal Tesoro (in particolare Finmeccanica Leonardo, Fincantieri, Enel e Ferrovie).

Il settore manifatturiero è quello che in questi anni, nonostante la crisi, ha garantito al nostro Paese un

saldo commerciale positivo che, anzi, negli ultimi 10 anni si è addirittura rafforzato. Nel 2007 avevamo un

saldo commerciale di 52 miliardi €, oggi il saldo è di 90 miliardi €, grazie in particolare ad alcuni settori

produttivi che rappresentano il cuore del nostro sistema industriale: meccanica strumentale, tessile,

pellami, chimica, farmaceutica, abbigliamento, calzature, computer, prodotti di elettronica, ottica,

apparecchiature elettriche, prodotti in legno, etc.

Spesso sottovalutiamo che il nostro sistema industriale non è soltanto esportatore ma è anche fortemente

integrato in Europa: il 70% delle nostre esportazioni viaggia, infatti, verso i Paesi europei. In alcuni settori

ciò è particolarmente evidente, si pensi a quello dell’automotive: non siamo grandi costruttori di automobili

– se escludiamo il segmento dell’alto di gamma – ma siamo eccellenti produttori di componentistica che

contribuisce in modo sostanziale alla competitività, in particolare, dell’industria dell’auto tedesca. In sintesi:

l’industria italiana è un pezzo importante dell’industria europea e di quella tedesca in modo particolare.

LA NUOVA FASE DELLA GLOBALIZZAZIONE

Negli USA, come in Germania e come dentro le nostre imprese più innovative, c’è consapevolezza della fine

dell’era industriale e della necessità di avviare una nuova fase della produzione: il digitale è il nuovo

motore, così come il vapore lo è stato per quella fase di sviluppo da cui siamo ormai usciti che non ha

precedenti nella storia. Il processo di digitalizzazione non solo sta rendendo l’industria più produttiva e più

competitiva, sta anche contrassegnando un importante cambiamento di rotta per quel che riguarda la

sostenibilità delle filiere: le nuove tecnologie sono sempre più fattore di ottimizzazione delle risorse, dalle

materie prime (e seconde) a quelle energetiche. È quello che, da tempo, l’Europa chiama Green New Deal,

piano di rilancio e di innovazione in senso sostenibile delle produzioni.

Sin dall’inizio del suo mandato, la Commissione von der Leyen ha messo la questione industriale al centro

dell’agenda politica. La svolta, quantomeno nei programmi, si basa sull’idea condivisa che l’Europa ha

bisogno di innescare un percorso di crescita sostenibile per generare un nuovo equilibrio economico e

sociale.

In particolare negli due ultimi anni, a seguito del forte rallentamento del commercio mondiale e della

crescita stabilmente debole della UE, in Europa si è infatti preso atto del ritardo industriale rispetto a USA e

Cina. Da una parte, tale ritardo è certamente dovuto all’assenza di una vera politica economica – a cui la

Commissione vorrebbe appunto rimediare – soprattutto se si pensa a quanto coesi sono i mercati

americano e cinese; dall’altra, è piuttosto evidente il gap che scontano le imprese europee sul piano

tecnologico e, più in generale, dell’innovazione. Secondo il McKinsey Global Institute, infatti, l’85% degli

investimenti in intelligenza artificiale è stato realizzato in aziende americane e cinesi. È ovvio che restare

indietro sul piano dell’innovazione generi un deficit sul piano della competitività.

Per rilanciare l’industria e recuperare questo ritardo nei confronti delle due superpotenze americana e

cinese, la Commissione europea sta scommettendo appunto sul Green New Deal. Oggi i termini Recovery

Fund e Next Generation EU hanno preso il sopravvento per dare enfasi alle misure straordinarie post-Covid,

ma si tratta di nomi diversi che vengono dati alla medesima cosa: lo sforzo che l’Unione Europea sta

finalmente facendo per darsi obiettivi comuni in grado di rigenerare la sua economia e di riproiettare la sua

influenza nel mondo nella fase post-pandemica di importante ridefinizione del multilateralismo.

L’ITALIA È SENZA UN PROGETTO DI SVILUPPO ECONOMICO

L’Italia è dentro la turbolenza planetaria della trasformazione dell’economia e dell’industria senza un

progetto condiviso. Il tema della produttività, ovvero della strada per produrre ricchezza, è la discussione

del presente e del futuro. Quel poco di crescita che registriamo, avviene su un tratto tradizionale del

sistema produttivo; resta drammaticamente indietro, invece, una parte la cui precarietà rende molto

difficile prevederne un futuro nel medio termine. È la parte più refrattaria al cambiamento e resistente ai

processi di innovazione. E dentro la congiuntura di questi anni abbiamo perso il 25% di manifatturiero: quali

caratteristiche avevano le imprese che hanno chiuso? Erano sottocapitalizzate, non facevano investimenti in

innovazione ed erano prive delle giuste competenze.

Questo spaccato di impresa ha bisogno di un orizzonte, ha bisogno di vedere indicata la strada verso

l’innovazione, che è poi la strada che porta l’impresa a stare sul mercato. Non si tratta di attuare politiche

dirigiste ma di tratteggiare un indirizzo di politica di sviluppo chiaro, riconoscibile dalle imprese che spesso

rinunciano ad incentivi e vantaggi pur di non interfacciarsi con pubblica amministrazione e burocrazia.

Va anche detto che le imprese più deboli spesso faticano a innescare processi di innovazione e di crescita

della produttività in ragione delle loro dimensioni: in Italia sono 4,5 milioni e il 99,6% sono di dimensione

micro (0-9 addetti – 95,2%) e piccola (10-49 addetti – 4,2%). Secondo il Politecnico di Milano (School of

Management, dati 2020), solo il 72% delle nostre PMI possiede un sito web; solo il 10% possiede una

piattaforma di eCommerce; solo il 24% investe sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Sono numeri che ci descrivono tutto il ritardo in innovazione delle nostre imprese. È tuttavia questo il cuore

di un sistema produttivo che non può sparire e non sparirà. Ha però un urgente bisogno di darsi una

prospettiva.

L’Europa sta mettendo a disposizione delle risorse importanti. Saremo in grado di cogliere l’occasione? Il

denaro va intercettato e investito nel modo giusto. Si tratta di capire laddove si possono generare fattori di

sviluppo e di competitività: c’è qualcosa che avrà un futuro e qualcosa che inevitabilmente non lo avrà. Sarà

importante investire su ciò che ci permetterà domani di competere nel mercato internazionale e su ciò che

sarà al centro di processi innovativi. Vi sono i comparti già richiamati che certamente proseguiranno nella

loro creazione di valore ma – tenendo anche conto che Recovery Fund e Green New Deal vanno per il 35%

sulla riconversione delle filiere – avremo sorprese importanti dal recupero delle materie prime e

dall’economia circolare, dal mercato dell’energia e dall’elettrificazione della mobilità. Ciò significa

investimenti, occupazione e nuove competenze.

La capacità di sostenere la creazione di valore e di lavoro sarà fondamentale. Ma prima di tutto vanno

individuati dei buoni precettori e dei buoni dirigenti. Ci attende una fase di ricostruzione del Paese e, per

questo, ci si chiede se è il caso di ricreare una nuova IRI: la politica industriale deve fare la sua parte, con la

fine dell’IRI è venuto a mancare un gruppo dirigente che sapeva interfacciarsi con l’impresa e con

l’industria. Va pertanto ricreata una task force con profili che abbiano queste competenze e che sappiano

rendere la politica economica una vera politica di sviluppo: il ministero dello sviluppo (MiSE) deve tornare a

essere un soggetto propulsore per la crescita. Tuttavia,per conoscenze e risorse, l’iniziativa privata è

l’attore principale dell’economia, ancor più dentro un processo trasformazione.

COSA FARE

Il Paese va innanzitutto infrastrutturato digitalmente. Poi è indispensabile naturalmente mettere mano ai

gangli storici di fisco, infrastrutture e cantieri (fermi non solo per il lockdown), energia, burocrazia e

giustizia: in Italia registriamo alti livelli di evasione fiscale come in ogni Paese al mondo in cui la tassazione è

alta; i cantieri vanno riaperti, l’energia elettrica ci costa il 30 per cento in più dei nostri partner europei,

burocrazia e giustizia sono due potenti fattori di rallentamento del processo economico. Come si fa a star

dentro il grande cambiamento mondiale dell’economia con un sistema di regole vecchio e obsoleto? Siamo

sicuri che il male del nostro tempo sia il capitalismo e non la burocrazia? Persino nel momento del bisogno, la burocrazia è riuscita a ostacolare la produzione di camici e mascherine: circa 200 imprese italiane – tra cui Armani, Prada, Nannini – si sono messe a disposizione riconvertendosi “temporaneamente” e mettendosi al servizio del Paese, nella maggior parte dei casi persino a titolo gratuito. La conformità delle mascherine prodotte era certificata dalle Università (Politecnico di Milano, Alma Mater di Bologna) ma la burocrazia le ha fermate perché mancava il bollino CE (ci vogliono mesi per il bollino CE). È difficile far girare l’economia quando persino nell’emergenza le

imprese si ritrovano i bastoni tra le ruote.

Tuttavia, per tornare ai numeri, in Italia vi è quindi solo uno 0,4% di imprese di medio-grandi dimensioni.

Delle grandi industrie che hanno segnato il miracolo economico resta molto poco. E molto di quel che resta

non è più in mani italiane: si pensi, per esempio, alla Fiat oggi FCA, all’Ilva oggi ArcelorMittal, a Pirelli che in

buona parte è di ChemChina, a Ducati e Lamborghini oggi parte del gruppo Volkswagen, etc. In sintesi, con

la globalizzazione, l’industria italiana da un lato si è destrutturata – andando anch’essa a cercare fortuna nei

Paesi a basso costo del lavoro – dall’altro ha ceduto molto a gruppi di capitalismo più robusto,

salvaguardando occupazione ma perdendo controllo di asset importanti.

Il nord produttivo è IL cuore dell’Italia industriale contemporanea, la politica economica che non è in grado

di differenziare e che prescinde da aspetti territoriali non ha oggi alcun senso. È questo il cuore

imprenditoriale del paese, la sua parte più dinamica che ha chiaramente delle peculiarità rispetto al

capitalismo internazionale e che, a differenza di questo, è lontana dai vertici dell’economia internazionale.

Sono imprese che, per quanto diverse dalle grandi multinazionali che tuttavia sono più lente, si muovono in

modo molto dinamico e agile, sfornano componenti e prodotti eccellenti – questo è il cuore del made in

Italy – e sono abilissime a inserirsi dentro le grandi catene del valore. Parliamo di un mondo che è molto

addentro i processi innovativi ed è in continua trasformazione. È anche grazie alle intermedie che in Italia si

sta affrontando la transizione energetica con buoni risultati.

E il SUD?

Sud vuol dire porti: Taranto, Napoli, Gioia Tauro, Napoli, Bari. È la nostra storia, storia di logistica e di

commerci: l’impero romano è crollato quando non ha più fatto manutenzione alle strade e ha perso il

controllo dei porti. Abbiamo un patrimonio strategico per il Paese di cui si accorgono gli investitori: basta

vedere l’attenzione dei Cinesi sui nostri porti di Genova e Trieste e quella dei Turchi su Taranto, nonché di

ArcelorMittal sulla ex Ilva che significa, anche, porto di Taranto.

Il tema dello sviluppo del Paese e della ridistribuzione è un tema di tenuta sociale e che, ancora una volta, si

intreccia con la questione del Mezzogiorno. Ma il Sud è dimenticato e lasciato alla criminalità organizzata.

Come l’Europa ha dimenticato l’Africa, unico continente del mondo – di fatto – escluso dalla

globalizzazione. Ha senso che oggi lo sviluppo in Africa lo portino i Cinesi?

L’Africa nell’ultimo secolo è cresciuta di quasi 9 volte e oggi si attesta attorno a 1,3 miliardi di abitanti, cifra

che 13 nel 2050 è stimata attorno a 2,5 miliardi. Il continente africano va in parte integrato e

parallelamente aiutato a svilupparsi: è l’unico modo per evitare che la sua crescita demografica travolga

l’Italia e l’Europa. E proprio l’Africa potrebbe rivelarsi quell’occasione di sviluppo non solo per il nostro

Mezzogiorno ma per tutta l’Europa mediterranea.

Da un punto di vista demografico, invece, l’Italia è un paese “piatto” che consegna i suoi giovani – dopo

averli formati – alle economie più avanzate, perché non riesce a essere per loro attrattivo, mentre

l’incedere dei nuovi lavori e della tecnologia brucia posti di lavoro e rende difficile la ricollocazione per i

lavoratori più anziani. Con cosa facciamo l’industria 4.0 se i nostri giovani se ne vanno? È evidente che il

nostro Paese è fermo e inviluppato.

Giuseppe Sabella