“La scelta più razionale sarebbe quella di chiudere uno o due stabilimenti in Italia”. Parla Sergio Marchionne di fronte all’assemblea degli industriali fiorentini, dopo un certo periodo di silenzio o, almeno, di poca sovraesposizione mediatica. L’amministratore delegato Fiat precisa alcune cose: “nessuno stabilimento verrà chiuso in Italia, anche a fronte della sovraccapacità produttiva”; “abbiamo sempre gestito la nostra libertà con coscienza”; “stiamo usando la sicurezza finanziaria che ci viene dall’estero per proteggere l’Italia”. Aggiunge: il progetto di Fiat per la produzione in Italia “porterà in 3-4 anni al pieno impiego dei lavoratori”; Fiat, dal 2004 ad oggi ha fatto scelte “per diventare più forte”; ha “superato un isolamento” che “l’avrebbe danneggiata”;”Se fosse rimasta la Fiat di una volta avremmo già portato i libri in tribunale da un pezzo”.
Infine, Marchionne fa la lamentela su tutti i “pregiudizi” che da sempre accompagnano l’immagine della Fiat: quelli sulla qualità dei prodotti e quello di vivere alle spalle dello Stato con aiuti pubblici. La realtà, ha concluso lui, è che “Fiat ha destinato all’Italia per investimenti, ricerca e sviluppo oltre 23,5 miliardi di euro e ricevuto agevolazioni pubbliche pari a circa 742 milioni.
Adesso, quello”strappo” tra sindacati e sindacati ed impresa è oggetto dell’impegno della nuova dirigenza di Confindustria, affatto gradita a Marchionne ed alla famiglia Agnelli- Elkan e dintorni, per operare una ricucitura e creare un clima di maggiore collaborazione tra le parti sociali.
Con il tempo, se non ricordiamo male, dei venti miliardi di investimenti non si è più sentito parlare. Anzi, fu detto che della cosa non si faceva più nulla perché il mercato dell’auto non tirava più. E’ piacevole che l’Ad di Fiat ritorni a far tintinnare il suono di quei “dobloni” sulla lastra di marmo del bancone. Si tratta della stessa cosa? O parliamo d’altro? Lo staremo a vedere.
Queste sono notizie che non piacciano, probabilmente, nella zona di Torino. Per due motivi: primo, perché viene istintivo chiedersi che fine abbia fatto la Fiat in Cina. Paese che aveva sempre mostrato un grande interesse per la nostra produzione automobilistica italiana e verso il quale la risposta della Fiat, invece, è sempre stata di sufficienza e sottovalutazione. La Cina questa grande sconosciuta.
Secondo, questi argomenti non piacciono anche perché si deve parlare di un fenomeno che a Marchionne ed agli Agnelli- Elkan potrebbe finire per far perdere il sonno, nonostante la loro smodata autoreferenzialità. Quando parliamo di Jaguar Land Rover (JLR), della BMW e della Nissan parliamo di società che non sono più britanniche da un bel pezzo. Producono nel Regno Unito, assumono lavoratori britannici, diffondono marchi e tradizioni automobilistiche della Gran Bretagna ma sono in mano straniere.
Oggi, dopo trent’anni, i risultati della produzione britannica di automobili sono tutti diversi da quelli della Fiat. C’è da rifletterci sopra e da aggiungere altro?
Giancarlo Infante