Le ragioni della scarsa capacità dell’agricoltura italiana di competere sui mercati sono molte e varie e hanno radici antiche. Una parte di responsabilità, ovviamente, è da addebitare agli stessi agricoltori: a quelli, almeno, che continuano a credere che il loro mestiere sia esclusivamente coltivare i campi e allevare il bestiame e che non hanno capito che un’azienda se vuole prosperare deve intraprendere, deve farsi impresa e avere l’occhio lungo, la capacità di orientarsi, con opportune strategie, verso il mercato. E in Italia ci sono troppe aziende, mentre le imprese sono molto poche. D’altronde non sempre si può pretendere da quel 50 per cento di agricoltori che hanno la disponibilità di meno di due ettari e che per campare sono costretti a svolgere un secondo lavoro, la capacità di sviluppare una strategia di marketing sufficientemente efficace.
Affacciarsi al mercato globale, salvo eccezioni, non è cosa per piccole e piccolissime imprese. E, una volta entrati, per resistere ci vogliono buoni (e costanti) standard qualitativi, sufficiente massa critica e un’organizzazione a prova d’Europa che garantisca le consegne nelle quantità e nei tempi richiesti.
Chi vuole esserci, dunque o si attrezza in proprio o si aggrega: non a caso sul mercato estero si afferma il nostro vino, spinto verso l’internalizzazione da una massiccia presenza della cooperazione, o le grandi Dop che mettono in campo un nome celebrato e un’organizzazione consolidata (Parmigiano reggiano, Grana Padano e prosciutto di Parma).
Inoltre portiamo sui mercati una non indifferente massa critica. E questo grazie all’alto tasso di aggregazione. Considerate che il 60 per cento del Grana Padano è prodotto da aziende cooperative.”
“In passato – prosegue Cesare Baldrighi – ci siamo affidati all’Ice (Istituto per il Commercio con l’Estero), ma il massimo che ne abbiamo ricavato, e non sempre e non dappertutto, è stato un po’ di supporto logistico. Con Buonitalia abbiamo messo in cantiere un buon numero di progetti: ce li hanno approvati e hanno avuto anche il timbro del Mipaaf. Li abbiamo portati a compimento e ci siamo sottoposti alle loro verifiche. Tutto bene. Ma quando siamo arrivati alla resa dei conti, Buonitalia ci ha versato appena la metà dei contributi concordati. Ancora una volta, dunque, abbiamo pagato di tasca nostra”.
Già, Buonitalia. Nata nel 2003 per iniziativa dell’allora ministro delle Politiche agricole Gianni Alemanno, Buonitalia è (meglio dire fu) una società per azioni a capitale interamente pubblico (70 per cento Mipaaf e 10 per cento rispettivamente Ice, Ismea e Unioncamere). Scopo della società è affiancare l’Ice per “sviluppare azioni di
Ma anche l’Ice non se la passa poi tanto bene. Nonostante il centinaio di sedi sparse per il mondo, non sembra che abbia fatto molto per l’agroalimentare del nostro paese. Tant’è che il governo Berlusconi lo sopprime nel luglio 2011. A risuscitarlo ci penserà il nuovo governo del Prof. Monti nel dicembre dello stesso anno. Mantiene il nome, Ice, ma reincarnandosi cambia pelle, non più istituto, ma agenzia. E in quanto tale rientra in scena dal 1° gennaio di quest’anno come braccio operativo di una cabina di regia interministeriale per l’internazionalizzazione del Made in Italy.
Le vicende di queste strutture (alle quali si può tranquillamente aggiungere l’Enoteca d’Italia, altra creazione del ministro Alemanno, finita in maniera non meno ingloriosa) la dicono lunga sull’impegno pubblico nel settore della promozione della nostra produzione agricola sui mercati internazionali.
Alla diffusione del made in Italy all’estero è sostanzialmente indifferente anche la Grande distribuzione. Quel poco che resta della Gdo italiana – la gran parte dei supermercati e ipermercati della penisola è in mano ai francesi e ai tedeschi – non sembra avere nessuna vocazione per l’internazionalizzazione. Tranne qualche timido tentativo di Conad, non esce dai confini nazionali.
“Altro che internazionalizzazione! – prosegue Tassinari – Per quanto riguarda noi, la cooperazione, cioè, il discorso è diverso. Noi abbiamo una vocazione territoriale, un legame speciale con i nostri 8 milioni di soci. Certo anche noi avvertiamo l’esigenza di far conoscere i nostri prodotti all’estero, ma la strada che intendiamo percorrere, piuttosto, è quella di un rapporto con le Coop centro-europee e scandinave per sviluppare canali attraverso i quali diffondere la nostra produzione agroalimentare. Un discorso del genere potrebbe essere messo a punto anche rispetto ai mercati dei paesi emergenti: anche lì esiste un tessuto cooperativo con il quale un domani si possano sviluppare utili collaborazioni.”
Ben più aggressiva, invece la Gdo francese: Carrefour ha 9.631 stores in 32 paesi. 4.132 sono in Europa, Medio Oriente e Nord Africa; 548 in Sud America e 364 in Asia. Auchan ha inaugurato il 31 dicembre del 2011 il suo quarantacinquesimo
Il che vuol dire che ha disseminato di punti vendita mezza Cina. Ed è abbastanza improbabile che i francesi commercializzino attraverso i loro canali di vendita il grana padano e il parmigiano reggiano, magari a spese del Brie o del Camembert. O il Chianti e il Barbera al posto del Bordeaux. Non è un caso che in Cina, a fronte di una massiccia presenza di vini francesi (il 52 per cento) la quota di mercato dell’Italia si è fermata al 6 per cento. E che prima di noi si piazzino, col 15 per cento, gli australiani che al vino sono approdati praticamente l’altro ieri e gli spagnoli che ci superano, magari di un solo percentile, ma ci superano. E questo ci dice che sui mercati cinesi c’è molto da lavorare, ma anche molto spazio da riempire.
2-continua (La prima puntata è stata pubblicata il 19 aprile 2013)
Franco Poggianti – Agricolae.eu