I giovani disoccupati nel mondo stanno raggiungendo il numero degli abitanti Usa. E’ necessario rivedere tutto il sistema economico mondiale, superando tanti luoghi comuni ed abbandonando vecchie visioni ideologiche . Non si può puntare né sulla recessione, né su una crescita senza novità e senza “ qualità”.
Il pianeta Terra scopre, quasi di colpo, che, dappertutto, sta montando un enorme problema comune: la disoccupazione giovanile.
“ The Economist” di Londra, questa settimana, pubblica i dati di una ricerca dell’OECD, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che già con i primi elementi fa arrivare un colpo diretto nello stomaco: i giovani disoccupati al mondo stanno per raggiungere il numero degli abitanti degli Stati Uniti, oltre 311 milioni. L’aumento rispetto al 2007 è del 30 per cento. Da un lato, c’è da registrare l’influenza su questo andamento della crisi economica in atto nei paesi cosiddetti sviluppati. Spagna e Italia sono in cima alla classifica.
Dall’altro, i paesi, un tempo definiti del Terzo mondo, che pure infilano, anno dopo anno, incrementi del Pil a due
Questo, a maggior ragione, in una realtà globalizzata ed interconnessa qual è quella del mondo contemporaneo.
Una nuova quantità e qualità di disoccupazione si va ad aggiungere a quella che già riguarda, da sempre, in molte aree del globo, i più anziani e le donne. Adesso, però, le trasformazioni economiche e sociali in atto rendono ancora più stridenti le disuguaglianze economiche, sia considerate nella dimensione mondiale, sia in quella locale.
Gli effetti possono essere devastanti. Nessuno può sentirsi al riparo dalle conseguenze di una situazione nei confronti della quale non sembrano essere messe in campo le adeguate analisi ed ipotesi alternative o correttive sia dai singoli stati, sia dalle organizzazioni internazionali.
Scarsa, o comunque non adeguata alla portata del problema, anche l’attenzione alle questioni planetarie delle migrazioni ed immigrazioni che non possono più essere viste solamente come una questione di ordine pubblico o di sola integrazione culturale e sociale. Finalmente, però, sia pure ancora troppo vagamente, e in maniera ondivaga, si comincia a sentir parlare dei problemi del lavoro. Lavoro: categoria generale dell’economia che, però, si riferisce in maniera molto concreta ad esseri umani. A tanti esseri umani.
Non solo ai lavoratori ma anche ai piccoli imprenditori, agli artigiani, alle piccole e medie aziende a conduzione familiare, e così via. Si tratta di un qualcosa che finisce per interessare e coinvolgere larghe fette dell’economia di molti paesi ed assumere, quindi,
E’ chiaro che una grande riflessione deve essere fatta, per primi, dai grandi pensatori dell’economia e della politica. A partire dalla considerazione che i dati sul lavoro giovanile costituiscono solamente uno degli ultimi indicatori sulla fine di un ciclo economico e culturale avviato con la caduta del Muro di Berlino e la fine del comunismo sovietico.
Gli schemi su cui si è sviluppata l’economia degli ultimi trent’anni sono forse giunti al capolinea.
L’idea che si possa continuare a consumare sulla base dei vecchi sistemi di produzione e di organizzazione della vita collettiva sembrano non reggere più nei paesi sviluppati, dove la crisi sta mordendo nella maniera più forte e dolorosa, come non accadeva dalla Seconda Guerra mondiale.
In Europa, ma anche negli Usa, è evidente che sta montando l’insofferenza verso i teorizzatori di una recessione senza prospettiva di ripresa e tutto il mondo politico che la sostiene. Siano essi di destra, di centro o di sinistra. In una realtà democratica moderna non si regge alla lunga solo contando sui sacrifici da imporre ai più deboli ed indifesi, soprattutto quando questi diventano, numericamente parlando, la maggioranza.
La smobilitazione della cosiddetta classe media, inoltre, finisce per non assicurare più quegli equilibri socio economici necessari anche ad una stabilizzazione politica. E’ chiaro che si può innescare una reazione la quale, per quanto distorta sul piano della politica e della lotta tra i partiti, alla fine, sempre in un possibile scontro sociale di piazza rischia di finire.
D’altro lato, non si può neppure puntare ad una crescita qualunque essa sia. Cioè, ad una mera crescita del valore del Pil, senza puntare sulla diversità della “ qualità” di questa crescita. E’ chiaro che il vecchio mondo ha bisogno di rivedere tante cose nel proprio armamentario culturale, istituzionale e politico. Deve rinnovare anche gli oggetti, i mezzi e la prospettiva della propria produzione economica.
La conferma di ciò viene dai dati sull’esportazione italiana con la conferma che, dove si è puntato su ricerca ed innovazione, conoscenza dei nuovi mercati esteri, capacità del confronto in nuove realtà, i dati economici indicano un chiaro successo dell’impresa e del coraggio imprenditoriale. Il dramma è che tutto ciò avviene nell’ignoranza e nel disinteresse da parte del consolidato sistema di potere italiano, che non è solo quello della politica e delle istituzioni. C’ è la necessità così di trovare nuove idee e nuove prospettive. Con esse, una nuova classe dirigente capace di trasformare l’intero Occidente e, per quanto ci riguarda più direttamente, l’Europa e l’Italia. La realtà deve essere riletta in modo originale liberandoci
A questo riguardo, “ The Economist” cita alcuni dati della ricerca Oecd per ricordare come Spagna ed Egitto hanno presentato altissimi tassi di disoccupazione giovanile anche durante momenti di forte crescita economica complessiva. Il segno che la mancanza di lavoro dei giovani debba essere, così, inquadrata all’interno di una riconfigurazione di tutto il sistema formativo e produttivo. Un semplice aumento quantitativo dei tradizionali dati economici non si porta dietro, di per sé, un calo di disoccupazione, in particolare di quella giovanile.
La più diffusa scolarizzazione, magari con il raggiungimento della laurea, è un altro aspetto che, in quanto tale, non garantisce automaticamente un abbassamento dei tassi di disoccupazione. Lo si vede, secondo i dati ricordati, con l’alto tasso di disoccupazione giovanile nel caso del Regno Unito e degli Usa. Nei paesi dell’Africa del nord un ragazzo laureato ha il doppio delle probabilità di un non laureato di restare disoccupato.
In questo senso si registrano alcune esperienze positive, indicate come strade da seguire. Quella della Germania, ad esempio, dove non sono mai state abbandonate le scuole di formazione professionale e di apprendistato. Oppure,quella della Corea del Sud , che ha sviluppato le “ meister schools”, analoghi istituti dedicati ai mastri artigiani.
Altro mito da sfatare sembrerebbe essere quello della cosiddetta flessibilità e della deregolamentazione del mercato del lavoro. Il riferimento va, ovviamente, agli alti tassi di disoccupazione del Regno Unito che, dopo la signora Thatcher, ha fatto della “ deregulation”, anche nel mercato del lavoro, la propria principale caratteristica.
I risultati non sono stati e non sono molto incoraggianti.
Giancarlo Infante