L’emergenza dell’informazione – di Giancarlo Infante
Le vicende Rai ci confermano dell’esistenza di una vera e propria “emergenza nazionale” per il sistema della comunicazione e dell’informazione. Abbiamo avuto già occasione di parlare del suo totale coinvolgimento con quello politico. Nel loro insieme, giornali e televisione, salvo pochissime eccezioni, si configurando come veri e propri “bracci contigui” dei partiti e dei gruppi d’interesse che condizionano le scelte del Paese.
È chiaro che il ragionamento dev’essere sviluppato lungo piani diversi. Uno è quello delle tv private e dei giornali, l’altro riguarda la Rai, cui è affidato il Servizio pubblico, pagato da tutti gli italiani.
Siamo abituati ad un sistema televisivo la cui parte privata è stata dominata dalle reti di Silvio Berlusconi. Le quali hanno sempre puntato su prodotti di una qualità funzionale al mercato pubblicitario interessato esclusivamente ad una “audience” molto popolare, potremmo dire persino “popolaruccia”, poco incline ad un impegno culturale e sociale. Questo spiega la critica di quanti rimproverano a Berlusconi l’aver cavalcato una sorta di riflusso e, persino, di regressione dell’intero Paese sotto il profilo culturale ed antropologico. Ma la Rai, con il tempo, non è che si sia poi distinta più di tanto.
Con Piersilvio Berlusconi sembra emergere una sorta di revisione critica, almeno in parte, dell’offerta. Probabilmente sollecitata da quanto di diverso cominciano a presentare, anche se si tratta di primi passi, altre realtà private entrate nel mercato televisivo.
Per quanto riguarda la carta stampata, siamo di fronte ad una crisi che resta profonda di identità e di copie vendute. Si colloca all’interno di una più generale crisi mondiale. Ma che in Italia, avviata ben prima che il digitale cominciasse a rivoluzionare il mercato dell’informazione, pare particolarmente acuita.
Si dirà: abbiamo a che fare con le regole di un mercato libero. Anche se, in molti casi, ci troviamo a sfogliare quotidiani la cui esistenza, in effetti, non sembra essere giustificata dai soli proventi delle vendite nelle edicole o online. Il mercato della carta stampata è, in qualche modo, “drogato” dalle convenienza politiche e d’impresa dei loro proprietari e dal rapporto con la politica in grado d’intervenire sul rubinetto delle pubblicità dei grandi gruppi e delle società in qualche modo controllate dallo Stato.
In sostanza, ci troviamo di fronte ad un supposto libero sistema d’informazione pesantemente condizionato dalla politica oltre che dal fatto che in Italia manca la diffusione di quelle figure che chiamiamo “editore puro”. E pure quei pochi che ci sono subiscono ogni forma di pressione da parte del potere politico.
Nel passato ci sono stati vari tentativi di far nascere una stampa diversa, magari basata su cooperative dei giornalisti e di altre figure necessarie all’attività giornalistiche. Ma, salvo il caso, de Il fatto quotidiano questi tentativi non hanno avuto un grande successo. Sicuramente non sono mai stati sostenuti abbastanza e messi in grado di reggere nella competizione creata con l’arrivo del digitale. E’ restata in ogni caso imperante l’idea che la libertà di stampa sia troppo importante per lasciarla in mano … a giornalisti liberi ed indipendenti. Ovviamente, tutta la carta stampata sta pagando questo a caro prezzo, e la chiusura delle edicole lo sta a dimostrare.
Per quanto riguarda la Rai, è inutile continuare a parlarne. Anche se i rischi che possa finire in una crisi irreversibile appaiano sempre più preoccupanti. L’idea della sua privatizzazione è sempre stata mantenuta sotto traccia fino dai tempi della P2.
La corsa alle “posizioni” di Viale Mazzini vede la partecipazione di tutti, nonostante le lamentele a corso alternato dell’opposizione di oggi, maggioranza fino ad ieri senza creare una reale autonomia della Rai, concepita pure come elemento di salvaguardia dell’Ente che assicura il Servizio pubblico. Domani, se ne lamenteranno i partiti che comandano adesso. E lo faranno subito il giorno dopo essere finiti all’opposizione. Un giochetto che dura da quando, con la fine della cosiddetta Prima Repubblica, sono saltati quei meccanismi messi in atto con la riforma del 1976.
L’unica soluzione, e in grado di salvare quella che, forse, nonostante tutto, resta ancora la prima industria culturale d’Italia, è di restituirla agli italiani. Così come già proposto da anni in occasione delle solite “grandi manovre” di allora attorno al Cavallo morente di Viale Mazzini (CLICCA QUI): creando un azionariato popolare che consegni la proprietà della Rai a fondazioni, università, famiglie, amministrazioni locali; insomma, alla Società civile.
Certo, bisognerà aspettare l’arrivo di una politica illuminata e lungimirante che oggi sembra mancare in tutti e due gli emicicli di Camera e Senato dove si continua a votare i consiglieri di amministrazione dei piani alti di Viale Mazzini per salire ai quali ci si imbatte nel monito del Cavallo morente del piano strada.
Giancarlo Infante