Il filo conduttore dell’Humanae Vitae e “I care” di don Milani

Il filo conduttore dell’Humanae Vitae e “I care” di don Milani

Sono passati 55 anni dalla enciclica Humanae Vitae di san Paolo VI e in questi giorni si è ricordato il centenario della nascita di don Milani: c’è un filo conduttore sottile che le accumuna?

Molte letture e interpretazioni, molte polemiche sull’enciclica che ha e ha avuto un valore dottrinale e morale significativo. Guardandola con occhio laico, colpisce innanzitutto il titolo, voluto poco prima della pubblicazione dal papa stesso e che apparentemente sembra poco descrittivo del contenuto del documento: l’enciclica ha un orizzonte profetico, di monito sulla sopravvivenza della Vita Umana, ossia sul destino del genere umano, ben oltre la ripuntualizzazione della dottrina morale cattolica negli anni del dopo concilio e nel pieno della rivoluzione sessuale.

Recentemente il cardinal Ladaria Ferrer ha sintetizzato magistralmente il “cuore” dell’Enciclica nel conflitto tra la Libertà dell’Uomo, accresciuta dal suo potere scientifico, e la realtà della Natura e di come il non rispetto integrale della naturalità metta in pericolo la stessa vita umana.

Vediamo quotidianamente come la tecnica e la scienza ci consentono di scomporre e frantumare in tante parti sempre più minuscole la complessa natura dell’uomo e del mondo intero: questa crescente abilità ha aperto la strada alla possibilità di straordinarie manipolazioni sulla Natura e sulla stessa Vita Umana.

Da queste abilità discende l’espansione della capacità dell’uomo di agire, tramite l’esercizio della propria  libertà, azioni e scelte, spesso positive, ma che quando infrangono la intrinseca integrità della condizione naturale  mettono in moto conseguenze  disgregative e pericolose per la Natura e per la stessa “Humanae Vitae”: “custodire” il Creato non vuol dire “conservare” o idolatrarlo, ma agire anche trasformandolo rispettando però la sua integrità e non sovvertendo – spesso per insipienza – le complesse regole che lo governano.

La possibilità di controllare e dissociare la sessualità umana nelle sua composita architettura che la rende ad un tempo momento di comunicazione e relazione, epifenomeno di compartecipazione affettiva e di amore e mezzo per garantire la continuità biologica della specie umana, specie se diventa un comportamento diffuso e  irriflessivo, può far perdere all’Uomo la capacità di utilizzare questa acquisita tecnicalità mantenendo unite tutte le naturali componenti della sessualità, generando squilibri che nel tempo diventano anche sistemici e forieri di tendenze autodistruttive.

La capacità di generare, diventata oggetto distinto dalla sessualità, governabile e manipolabile secondo l’orizzonte umano (assai più limitato di quello naturale), ha reso possibile procedere al controllo del concepimento con presidi biologici progressivamente  più precisi e sofisticati che rendono impossibile anche l’impianto dell’ovulo fecondato, sempre più reificato e separato dalla sua identità corporea e di conseguenza personale;  nel contempo la relazione affettiva sganciata dalla corporeità è diventata  valore in sé assoluto e idealizzato al punto che l’amore/innamoramento è il riferimento primario che governa le relazioni di coppia e famigliari;  e la sessualità, isolata dai suoi naturali legami affettivi, relazionali e generativi, è diventata una funzione a se stante  sempre più meccanica e sottoposta a regole prestazionali che ne decretano il successo e il significato, oggetto di possesso di cui poter disporre a piacimento anche travalicando la libertà altrui. La violenza sessuale e la efferata violenza di fronte alla perdita dell’oggetto amato sono condotte sempre più frequenti, nonostante il mezzo secolo di libertà sessuale che avrebbe dovuto produrre l’effetto opposto liberando l’umanità intera da ogni violenza animalesca.

Grazie alla reificazione della “generatività”, è stato possibile sviluppare tecniche di fecondazione assistita che hanno consentito di far nascere nuove vite superando i limiti imposti dalla natura: il poter generare   staccato dalla sessualità, è diventato progressivamente una facoltà di cui poter disporre a piacimento, all’interno dell’orizzonte del desiderio umano.

E così anche il nascituro è diventato oggetto di un desiderio che ha potuto e può materializzarsi al di là dei vincoli della naturalità, subendo una analoga reificazione.

Se è oggetto e se è nel potere dispositivo dell’uomo, perché non manipolare e selezionare quelle componenti genetiche che sono credute capaci di rendere una vita più felice? O eliminare quelle condizioni che rendono infelice la vita? L’orizzonte di giudizio è sempre e solo quello del singolo individuo e del suo desiderio.

Dalla fecondazione omologa, si è passati a quella eterologa, naturale evoluzione della manipolazione del processo generativo sganciato da ogni legame con la sessualità e la affettività.

Perché poi non consentire che questa nuova vita così “creata” possa diventare disponibile anche per chi, sul piano naturalistico, non è in condizione di poterla generare da solo? Se si amano e se anche dello stesso sesso perché dovrebbe essere loro impedito? E se c’è bisogno del corpo di una altra persona e se è disponibile, magari dietro compenso, perché porre un limite a questo libero esercizio del potere dell’uomo?

La maternità surrogata è espressione anche semantica della inarrestabile prosecuzione della frammentazione e reificazione della stessa vita umana che l’enciclica già evidenziava come “pericolo”, percependo come un dato apparentemente banale come quello dell’utilizzo della pillola anticoncezionale avrebbe potuto aprire la strada a conseguenze tragiche per il genere umano: una lettura moralistica e casuistica ha di fatto oscurato la potenza profetica del grido del papa.

Di per sé, le conoscenze e le tecniche che vengono sviluppate non sono necessariamente un “male”: se però simultaneamente si lascia esplodere il conflitto tra Libertà dell’Uomo e le leggi di Natura, lasciando alla Libertà il diritto e la facoltà non solo di governare la Natura ma anche di dissociarla, alterandone la sua intrinseca dinamica e cercando di sovvertirne le naturali regole, i rischi per l’umanità e per lo stesso mondo naturale diventano enormi….

Proseguendo nella scotomizzazione e dissociazione della natura umana, perché mai si dovrebbe essere vincolati ad un dato biologico nella costruzione della propria identità personale e non legarla invece alla percezione di sé, espressione ancora più alta di quel primato della Libertà che va oltre il limite imposto dal naturalmente biologico? Se generiamo la vita, possiamo forse fermarci ai vincoli biologici imposti dalla natura sessuata della nostra condizione? E’ l’ideologia gender, passo “naturalmente” successivo.

E ancora, perché non andare oltre i limiti della naturalità che vincola la libertà e la potenza dell’essere umano? Dapprima con protesi robotizzate per superare danni occasionalmente intercorrenti alla “macchina biologica”, in prospettiva con sofisticati innesti di nuove componenti che potenzino anche la capacità stessa del pensiero dilatando in potenza la libertà stessa dell’uomo: prima con la Intelligenza Artificiale, protesi esterna, quasi RAM aggiuntiva alle abilità di calcolo dell’essere umano, in futuro con l’innesto di endoprotesi sofisticatissime negli stessi circuiti neurali: il cyborg.

Da una minuscola dissociazione causata da una banale molecola biologica – la pillola anticoncezionale – all’” uomo nuovo” che supera e travolge i limiti imposti dalla Natura: il transumanesimo. Il resto è solo “scarto”.

Che fare? Erigere barricate? Continuare a tracciare righe e confini invalicabili, di solito già valicati nel mentre si tracciano? Brandire la punizione divina come un Armageddon definitivo?

Don Milani a Barbiana aveva davanti a sé dei poveri bambini, figli di gente messa ai margini dello sviluppo di quell’epoca: i bifolchi di Ignazio Silone.

Messa da parte ogni remora, ha fatto dell’I CARE la regola della sua vita: passione profonda per un umano visto nella sua integralità che include non solo la dimensione naturale, ma anche la dimensione sociale, ossia il fitto intreccio di reti esterne all’uomo costitutive della sua stessa possibilità di realizzazione.

E questa integralità e unitarietà della persona che va oltre il dato naturalistico, porta don Milani a “piegare” le prassi istituzionali, fino a difendere il diritto a disobbedire anche di fronte a Istituzioni di cui pure riconosceva la necessità indispensabile, per fermare la frantumazione dell’uomo dal suo contesto, di cui la guerra è l’epifenomeno più clamoroso e manifesto: ma non l’unico.

Di fronte al pericolo di una frantumazione della Humanae Vitae, la via d’uscita è il potente grido dell’I CARE, che è concretezza assoluta – niente di dogmatico o di morale -, risposta ad un bisogno concreto e esistenziale, primato dell’unità della persona strettamente vincolata al suo contesto rispetto alle prassi, alle procedure, alle istituzioni stesse: risposta alle  devastazioni  presenti nella attuale comunità sociale che, polverizzata in interessi e procedure esondanti il proprio confine, cappio mortale per lo stesso essere umano, si deve genuflettere di fronte ai vincoli della produzione, dell’eccellenza, del profitto.

Si comincia sempre dall’infinitamente piccolo: pochi bambini, in un piccolo paese di poche anime cui è negato il bisogno di partecipare alle conoscenze e ai saperi degli altri.

I Diritti se non sono riconosciuti innanzitutto come Bisogni, diventano prima simulacri e poi catene opprimenti, con le immancabili vestali che ne devono regolare l’attuazione, aggiungendo ulteriore oppressione: la “cancel culture”, il “politically correct” sono epifenomeni tragici della devastazione causata dalla frantumazione dell’unità dell’uomo con il suo ambiente sociale.

La dissociazione e la frattura nella Natura, tra la Natura e l’Uomo e tra la persona e il suo ambiente sociale e naturale produce prevaricazione e alla fine Morte: non necessariamente per infrazione di dogmi morali, ma anche più banalmente perché non siamo in grado di governare la complessità di una Realtà che va oltre la nostra facoltà e capacità di comprensione.

Che fare? Ripartire da don Milani: invece che celebrarlo spesso ipocritamente al caldo delle proprie comodità, dobbiamo fare nostro il suo impetuoso I CARE. Ovunque.

Cominciando dai bambini e dai ragazzi, e non solo a scuola, ma di certo partendo dalla scuola con l’impegno di chi ci opera quotidianamente e con l’obiettivo politico di cambiarla alla radice. Continuando con gli anziani, spesso lasciati o rimasti soli e le persone comunque fragili, qualunque sia la causa della loro fragilità. Proseguendo sul posto di lavoro, ovunque esso sia, anche al chiuso di uno “smart working” potenzialmente alienante, dove quasi sempre prevale il diritto alla frantumazione tra la persona e il lavoro, dove il frammento dell’interesse prevale sulla necessità di conciliare e integrare “valore – lavoro – persona”.

Affermandolo in tutti i luoghi dove l’umano è sistematicamente sconfitto dai vincoli e dalle procedure: e con l’arrivo della IA questi vincoli diventeranno così potenti da mettere in pericolo l’umanità stessa come un numero crescente di esperti sta invano evidenziando. Tutti possiamo essere “don Milani”: basta comprendere come la scissione della libertà dalla propria naturalità, della persona dal suo ambiente sociale, mette sempre a rischio la “Humanae Vitae”

E per chi fa politica, specie in INSIEME, la responsabilità è ancora più grande, perché oltre all’impegno nel quotidiano per combattere la frantumazione, bisogna saper coltivare la politica stessa come arte regolata da meccanismi che vanno riconosciuti e rispettati, così che torni ad essere risorsa per ricomporre un rapporto dialettico tra Uomo e Natura, in grado di opporsi con forza inflessibile ad ogni scelta contraria, superando steccati, accettando infinite mediazioni, a volte anche umilianti, perché è in gioco la Vita di tutti.

Massimo Molteni