Il disastro della Spesa sanitaria – di Massimo Molteni

Il disastro della Spesa sanitaria – di Massimo Molteni

E’ uscito in questi giorni  uno studio del MEF sul monitoraggio della spesa sanitaria: documento corposo e accuratamente articolato.

I giornali si butteranno, anche giustamente, sui vari aggregati di spesa sottolineando come la spesa sanitaria nel 2021 è aumentata fino a 164miliardi euro, di cui ben 37 miliardi di euro spesi direttamente dai cittadini (farmaci fuori prontuario – visite mediche e diagnostica e in misura minore terapie pagate direttamente).

Nel biennio 20-21 la spesa sanitaria corrente è cresciuta in misura maggiore rispetto al finanziamento del SSN.

Molti analizzeranno le macro voci di spesa:

  • Costo del personale
  • farmaci
  • consumi intermedi diversi dalla spesa farmaceutica
  • l’assistenza medico-generica in convenzione
  • prestazioni in natura fornite dal privato

per analizzare trend o sottolineare “storture di sistema”.

Mi sembra importante invece soffermarmi su un particolare che sfugge ai più, ossia come Il rapporto richiama correttamente come la stesura dei bilanci da parte delle Regioni e delle aziende pubbliche deve seguire i principi dati dal decreto legislativo 118/2011 che prevede tra le altre indicazioni come anche in questi bilanci ci si debba rifare a quanto previsto dal codice civile in materia di bilanci aziendali.

Tutto assolutamente corretto e consequenziale.

Il sistema ha da circa 10 anni, finalmente mi vien da dire, uno strumento potente che descrive in maniera puntuale e comparabile, la spesa nei suoi macro-aggregati, ma non ha nessuno strumento che descrive i risultati che raggiunge con l’uso delle risorse così puntualmente descritte, se non il semplice volume numerico e economico delle prestazioni erogate.

In perfetta linea con qualsiasi azienda che produce e vendi beni: tot risorse, tot produzione, così da vedere, in caso di conti in disordine, dove operare il necessario “efficientamento” e utilizzare i dati raccolti per analizzare le variazioni e l’incidenza sul PIL.

All’interno di questo processo di valutazione c’è un postulato di base che stabilisce una relazione diretta e direttamente proporzionale tra salute e numerosità degli output prodotti:  e come tutti i postulati non è mai stato né dimostrato, né validato, ma assunto come “vero a priori”.

E’ davvero così? Ci sono invero anche dei “bias” nella raccolta dei dati per le valutazioni economiche.

I costi del personale sono   precisi e puntuali, così come i costi dei farmaci e dei consumi intermedi: e a livello macroeconomico le eventuali imprecisioni sono di effetto trascurabile.

I costi della produzione sono invece calcolati sulla base delle tariffe pre-definite per le prestazioni erogate: sia per le prestazioni ambulatoriali che per quelle di ricovero.

Può essere corretto che queste tariffe non seguano la legge della domanda e dell’offerta, essendoci una evidente asimmetria che rende impossibile una virtuosa auto-equilibratura tramite le leggi di mercato.

Peraltro, queste tariffe, specie quelle ambulatoriali, non remunerano affatto i costi di produzione in maniera sufficientemente attendibile: calcolano perfettamente il costo dei beni intermedi necessari alla prestazione mentre i costi di produzione derivanti dall’impiego di risorse di personale, sono calcolati su tempi standard di esecuzione, applicando i costi aziendali di diretta imputazione, ritenendo trascurabili tutti i costi di personale comunque necessari a erogare ogni prestazione.

Inoltre, i costi sono calcolati come se l’operatore coinvolto producesse, nella sua unità di tempo giornaliera, il numero preciso di prestazioni  previsto dallo standard di tempo assegnato, senza pause o scostamenti, per tutti i giorni della sua presenza al lavoro: credo sia la modalità classica di definire il costo della mano d’opera nelle aziende manifatturiere o dei sub-appalti a cottimo

Nelle attività sanitarie, specie quando il paziente entra in una relazione di cura che è il fondamento dell’agire medico, non va così: spesso il tempo dell’operatore non è speso per eseguire la prestazione indicata dal nomenclatore o a prontuario, ma per strutturare la relazione di cura con il paziente, in particolare con i pazienti fragili o nelle patologie croniche. E questo porta ad una inevitabile divaricazione tra ricavi attesi e costi –per altro mal calcolati – della produzione.

Inseguire una descrizione puntiforme di tutte le forme della relazione di cura appare obiettivo poco sensato, anche se perfettamente coerente con le logiche aziendali della contabilità analitica. A puro titolo di esempio, l’OMS sta cercando di raccogliere l’elenco delle prestazioni riabilitative, educative e psicologiche nelle diverse sfumature e accezioni: ha già superato le 60.000 tipologie di prestazioni….

Il risultato? Tutte le tariffe che utilizzano “beni  intermedi” (es. le prestazioni strumentali) sono mediamente sovra-tariffate, quelle svolte solo dal personale sanitario sono sempre sotto-tariffate.

Se il volume di produzione non è invece corrispondente al teorico previsto (i famosi modelli di budget)  la valutazione macro-economica non può che evidenziare la presenza di importanti margini di efficientamento: assolutamente non reali, ma che spingono sempre il più il sistema verso indicatori di iper-produzione.

Dieci anni di queste logiche, hanno ridotto il personale impiegato (l’altra faccia del miglioramento dell’efficienza), hanno ridotto la soddisfazione a lavorare in ambito sanitario ( e lo si vede dalla caduta di interesse nelle scuole di formazione), hanno spinto il sistema in una logica solo produttivistica (favorendo la nascita d forme contrattuali flessibili, a prestazione, e a misurare tutto sulla quantità di produzione penalizzando il sistema pubblico) hanno mediamente aumentato la insoddisfazione del cittadino che compulsivamente cerca di soddisfare il suo bisogno accrescendo l sua domanda di prestazioni e gonfia la sanità “out of pocket”. Anche in economia  se non si hanno criteri per valutare l’efficacia di ciò che viene prodotto come si può fare una valutazione pertinente? Chi aumenterebbe la spesa per riscaldare la casa, senza sapere se con l’aumento di spesa la casa è veramente più calda e se questo aumento di calore rende la sua qualità di vita effettivamente migliore?

In realtà, si è passati ormai dal paradigma economico a quello puramente finanziario, dove l’obiettivo finanziario da raggiungere è sostanzialmente disgiunto anche dal valore economico del prodotto: e in ambito sanitario, già l’output in sé è indicatore fallace rispetto al bene “salute”, figurarsi quello puramente finanziario…..

Se questo è vero, per le spese sanitarie (e quelle relative ai ricoveri sono solo relativamente più appropriate, mentre non lo sono affatto quelle relative alle attività di Pronto Soccorso), per le attività socio-sanitarie – ossia quelle fondamentali per la cronicità e la gestione dei più fragili – il “bias” è ancora più elevato, specie se poi si ha l’ardire di dover fare assistenza domiciliare.

La attività sanitaria e socio-sanitaria è uno degli argomenti più complessi da organizzare. Trovare soluzioni non è assolutamente facile: ma se gli strumenti per impostare azioni programmatorie contengono bias tecnici oltre che un impianto logico, quantomeno lacunoso (la salute, essendo bene immateriale, di fatto non è facilmente riconducibile ad un algoritmo matematico, e come è possibile avere elementi di analisi della spesa senza una contestuale analisi dei risultati di salute raggiunti?), la questione diventa ancora più complicata e forse irrisolvibile.

Per finire: una precisa stesura dei bilanci, se non serve a guidare l’azienda a produrre utili, e se non è in grado nemmeno di stabilire un rapporto almeno di approssimazione tra costi e risultati (e i risultati NON SONO GLI OUTPUT, ossia il numero di prestazioni prodotte!!) dovrebbe servire per…..?

O forse, il vero obiettivo è produrre prestazioni, ossia utili: ma se così deve essere, perché un Servizio Sanitario Pubblico? E perché curare chi non fa produrre utili?