Questa economia non ama la persona- di Daniele Ciravegna

Questa economia non ama la persona- di Daniele Ciravegna

Questa economia non snobba il lavoro, poiché non può farne a meno. Anche in futuro non potrà snobbare il lavoro: anche quando i robot saranno assai più presenti di oggi, il lavoro sarà comunque determinante. La stessa intelligenza artificiale è e sarà una modalità di accelerazione dei processi razionali dell’intelligenza umana, quindi del lavoro umano.

Questa economia non può fare a meno del lavoro, ma lo ama?

L’impresa produttiva – centro dell’attività economica – è una combinazione di lavoro e di capitale. E’ un mezzo per la produzione non il fine ultimo. Parrebbe che non sia così, se si prendono in considerazione gli indicatori economici cui più comunemente si fa riferimento: fatturato, valore aggiunto, capitale, profitto, PIL ecc.; leader nelle argomentazioni degli economisti e, ancor più, di politici e giornalisti. Si parla anche di tassi di disoccupazione e di occupazione, ma sovente quali indicatori di rilevanza secondaria e senza approfondimenti di natura qualitativa, cioè non considerando la qualità dell’occupazione (livelli di qualificazione, durata e stabilità delle posizioni lavorative), che è l’aspetto più rilevante.

Eppure al centro dell’impresa c’è la persona umana; c’è il lavoro, che vede esaltata la sua produttività quando può utilizzare capitale efficiente. In verità, quest’ultimo è supervalutato nella sua presenza e ciò può essere spiegato col fatto che la nostra economia è figlia delle diverse rivoluzioni industriali, per la cui implementazione abbisognava che al lavoro si affiancasse sempre nuovo e più capitale artificiale, in presenza di lavoro relativamente abbondante.

Poiché, quando si tratta di combinare fattori differenti, il più rilevante è quello relativamente scarso, si è creato un ambiente culturale in cui il capitale è venuto ad essere considerato più rilevante rispetto al lavoro e il risparmio (reddito non consumato, a cui corrisponde prodotto non destinato al consumo, ma all’accumulazione di capitale) è venuto assumendo la posizione di fattore produttivo più rilevante (in quasi tutto il mondo si celebra la Giornata del Risparmio!). Posizione positiva che non c’è se il risparmio è sovrabbondante rispetto al capitale che s’intenderebbe accumulare. In questo secondo caso, il risparmio (investimento offerto) dovrebbe ridursi (per effetto dell’aumento del consumo) per equilibrarsi con l’investimento desiderato).

Però il lavoro è non solo fattore primario per l’attività produttiva, con ricadute oggettive e materiali, bensì anche per la sua dimensione soggettiva, in quanto permette l’espressione della persona umana e costituisce quindi elemento essenziale dell’identità personale e sociale della donna e dell’uomo. Il lavoro è necessario e rilevante non solo per l’economia, ma per la persona umana, per la sua dignità, per la sua cittadinanza e per l’inclusione sociale, tenendo presente che possono essere vissuti rapporti autenticamente umani di amicizia e di solidarietà anche all’interno dell’attività economica e non soltanto fuori di essa o dopo di essa. La sfera economica non è né eticamente neutrale né, di sua natura, disumana e antisociale. Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente.

Per chi condivide i valori della Dottrina sociale della Chiesa (DSC), il lavoro riveste primaria importanza per la realizzazione dell’uomo e per lo sviluppo della società e per questo occorre che esso sia sempre organizzato e svolto nel pieno rispetto dell’umana dignità e al servizio del Bene Comune. Così dicendo, si dà al lavoro, all’attività produttiva, all’economia un’impostazione antropologica; se così non fosse, si finirebbe per trattare il lavoro quale semplice “forza lavoro”, alla stregua di qualsiasi altro fattore produttivo, di qualsiasi altra fonte di energia.

Dai contenuti di diversi documenti che formano la DSC (in primis, la lettera enciclica di Papa Giovanni Paolo II, Laborem Excenses, 1981), l’etica del lavoro porta alla seguente sequenza etica: il lavoro è un bene dell’uomo, per l’uomo e per la comunità; l’uomo ha il primato sul lavoro, perché il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro e per l’economia; il lavoro ha il primato sul capitale e non il lavoro è al servizio del capitale; in prima sintesi, la fabbrica (lavoro e capitale) è per l’uomo e non l’uomo per la fabbrica.

Questo ovviamente solo se si tratta di lavoro libero, decente, creativo, partecipativo e solidale; con una sola espressione: lavoro dignitoso, come ci dice la Dottrina sociale della Chiesa. Se è dignitoso, il lavoro permette di realizzare l’autonomia del lavoratore/lavoratrice; la persona partecipa allo sviluppo economico, sociale, culturale della società; dà prova dei propri talenti. Ad ogni modo, la persona umana è l’obiettivo finale (l’assoluto etico) rispetto al quale il lavoro è l’obiettivo intermedio principale, perché non di solo lavoro vive l’uomo.

Sopra ho voluto sottolineare la natura di obiettivo intermedio del lavoro anche perché sovente si sente dire che quella certa iniziativa è positiva perché crea occupazione (che una certa opera pubblica ha da farsi perché crea occupazione; addirittura sentir dire – con un accento di positività – che la produzione di foglia di coca e la sua lavorazione in pasta di coca e in polvere di cocaina dà lavoro a migliaia di persone nell’Amazzonia o sottolineare, con un che di compiacimento, che la liberalizzazione della produzione e della commercializzazione di cannabis sativa nello Stato statunitense del Colorado ha fatto aumentare in modo significativo occupazione e prodotto interno lordo dello Stato o che la progettazione, produzione e manutenzione di una certa arma dà lavoro a migliaia di persone!) senza avvertire la necessità di scendere in profondità: lavorare è premessa per avere la produzione di “cose”, ma occorre che queste cose siano “cose buone”, anche con riferimento all’ambiente naturale, cioè siano “beni”. Non ci si può fermare all’attività produttiva, al flusso di reddito che il lavorare apporta al lavoratore e alla sua famiglia, alla stessa realizzazione della personalità del lavoratore. Altrimenti, il lavoro non compie la sua missione, che consiste nel mettere a disposizione della propria comunità “beni” e non semplicemente “cose” o nel produrre beni per metterli a disposizione di altri, esportandoli, per dare agli altri questi beni di cui essi abbisognano o per avere dagli altri beni che s’importano in cambio.

L’umanità ha così tanto bisogno di avere beni eccellenti – in presenza di risorse scarse – che è un non senso che così tanti lavoratori producano così tante “cose” con bassa o nulla bontà o che sono dei mali. Il fatto che queste cose abbiano persone disposte a pagare per averle non è motivo eticamente sufficiente per produrle.

In altre parole, anche nei confronti del lavoro occorre applicare l’analisi sull’eticità del suo risultato, per cui il lavoro costituisce un obiettivo intermedio per il raggiungimento dell’obiettivo finale della disponibilità di beni materiali e immateriali, la creazione di beni relazionali e la realizzazione della propria persona. Occorre il superamento della tesi che vi sia separazione tra etica ed economia, che prima viene l’efficienza economica e poi la valutazione della bontà sociale di quello che si è prodotto, o che si va a produrre, e della giustizia sociale nella ripartizione dello stesso prodotto.

Vi è ancora un altro punto assai rilevante, poiché il lavoro si realizza normalmente in un ambiente sociale, in contatto e/o in collaborazione con altri lavoratori e con altri soggetti economici. È allora necessario che i lavoratori siano coinvolti nella gestione dell’impresa che concorrono a formare. Che operi cioè il modello partecipativo nella forma di partecipazione dei lavoratori al processo decisionale normale e alle scelte strategiche dell’impresa e anche ai risultati economici della gestione stessa: una compartecipazione che permetta ai lavoratori di essere e sentirsi coinvolti appieno nella comunità produttiva di cui sono parte. Non meri esecutori di scelte altrui, come se fossero soggetti inermi, ma attori responsabili all’interno della comunità produttiva che si chiama impresa, e da ciò non potranno non discendere anche rilevanti miglioramenti nell’impegno dei lavoratori, e quindi anche nei risultati economici dell’impresa stessa.

Concludendo, se l’economia declinasse l’impiego del lavoro lungo le linee direttrici suddette, si potrebbe dire che, sì, l’economia ama la persona umana.

Daniele Ciravegna