Draghi lascia e i partiti tornano come 20 mesi fa

Draghi lascia e i partiti tornano come 20 mesi fa

Mario Draghi ha definitivamente salutato in attesa di passare la campanella del Presidente del Consiglio a Giorgia Meloni. Non avrebbe potuto esserci un cambio tra persone tanto diverse, e non solo per il genere. Eppure, così vanno le cose della vita.

Mario Draghi ha definito “straordinari” i 20 mesi durante i quali ha fatto il Presidente del consiglio sulla base di molta concretezza, niente ideologismi e pochissime promesse. In qualche modo, un po’ il contrario dello stile della prima donna ad insediarsi a Palazzo Chigi. Draghi giunse nell’ufficio che dà sulla Colonna Antonina con una certa riluttanza, consapevole delle tante difficoltà interne ed internazionali, economiche e sociali. Non disse di essere “pronto” a governare. Si limitò a ricordare che il Presidente Mattarella gli aveva dato l’incarico per due questioni fondamentali: contrastare definitivamente la pandemia e gestire il piano vaccinale e avviare la gestione del Pnrr.

Dopo è successo di tutto. Per alcuni versi persino inatteso. Dalla guerra in Ucraina, al balzo dell’inflazione e dell’esplosione dei costi delle materie prime, soprattutto quelle energetiche. Cose che non sono bastate ad evitare la crisi anticipata del suo Governo in diretta conseguenza della lacerazione della propria maggioranza.

Una maggioranza formatasi sulla base di una apprezzabile risposta che gran parte del Parlamento volle dare ad un qualcosa attorno cui sembravano ruotare i destini del Paese.

Mario Draghi per 16, 17 mesi era riuscito a sopire, lenire, ovattare tutto il possibile e rendere così possibile  la prosecuzione lungo quella cosiddetta Agenda Draghi che, in realtà, significa la ricerca di un equilibrio in grado di sublimare le forti disparità esistenti tra i partiti mentre era necessario pure seguire talune indicazioni richieste dagli altri europei sulla via di una qualche riforma. In realtà, si accontentavano, per allora, di qualche “riformetta” in grado di giustificare di fronte alle loro opinioni pubbliche che all’Italia venisse concessa la più alta quota di finanziamenti e di prestiti previsti dal Pnrr.

Sotto la cenere, però, e a mano a mano che ci si avvicinava alla famosa scadenza dei quattro anni sei mesi e un giorno della vita del Parlamento, cosa che avrebbe consentito la fruizione della pensione piena a deputati e senatori, si capiva quanto tutti guardassero in effetti alle elezioni politiche del 2023. Per questo stava pure crescendo un’area intenzionata a dare vita ad un qualcosa che avrebbe reso possibile il ritorno di Mario Draghi a Palazzo Chigi dopo la conferma di un voto popolare, e non solo sulla base della chiamata presidenziale del “salvatore della patria”.

Questo progetto fu molto indebolito del fallimento dell’idea di qualcuno di portare, invece, Mario Draghi direttamente al Quirinale. In qualche modo quella vicenda, il cui sbocco fu, fortunatamente per noi, il ritorno su Sergio Mattarella, minò molto l’esperienza dell’ex Presidente della Bce a Palazzo Chigi. E in effetti, il largo voto per Mattarella fu subito seguito dall’accentuarsi delle turbolenze tra i partiti. Aggravate anche da polemiche eccessive che avrebbero potuto essere evitate se avesse prevalso un grande senso del realismo e capito che coalizioni così eterogenee, formatesi quasi grazie ad una piena che ammucchia insieme tronchi e fronde trascinate dalla corrente, possono esplodere anche se solo si tocca un piccolo arbusto che ne faccia parte.

In molti non capirono le conclusioni cui avrebbe portato una diatriba tra i partiti dilatata fino alle estreme conseguenze con la fine di tutto quello che di buono era stato fatto per un anno e mezzo.

Ma questo non è certo colpa sua. E cioè se i partiti non hanno fatto tesoro della portata della Covid, dei livelli cui è giunta l’inflazione e del conseguente aggravarsi della crisi socio-economica, speriamo di no, che si teme possa letteralmente esplodere con l’autunno, il diminuire della luce naturale e dell’uso massiccio del riscaldamento.

Il problema non è stato tanto l’aver voluto mandare via Mario Draghi con sei mesi in anticipo, e anche questo finirà per avere delle conseguenze sulla marcia sull’applicazione del Pnrr, ma l’aver ripudiato quelle buone intenzioni su cui sembravano convenire tutti i partiti che, almeno in parte, nel febbraio del 2020 sembrarono farsi carico più dei problemi del Paese che di quelli loro. Fu cosa effimera, come abbondantemente dimostrato dal come si è svolta la campagna elettorale, anche sulla base del formarsi di coalizioni posticce, oppure a seguito della rotture di alleanze consolidatesi prima della nascita del Governo Draghi. E in più dimostrato da quello che sta accadendo sotto i nostri occhi in queste ore.

Rinasce adesso un Governo sulla base della rissosità. Il rischio è che, a differenza, di quanto accaduto con l’esperienza del predecessore, Giorgia Meloni, proprio perché costretta a fare un “governo politico”, anzi partitico, sa già che quella rissosità rischia di far parte del Dna della nuova compagine. E la cosa ci farà ancora  rimpiangere almeno lo stile di Dario Draghi. Il cui Governo non è stato esente di criticità, ma almeno dava l’impressione di affrontare le cose che contano, non solamente sulla base degli equilibri tra gli interessi di vario genere cui, adesso, sono tornati invece a guardare esclusivamente i nostri capi partito.

Cassandra Melissa Verticchio