Giorgia e i falliti della Seconda Repubblica – di Alessandro Risso

Giorgia e i falliti della Seconda Repubblica – di Alessandro Risso

Non è stato difficile azzeccare i pronostici sulle elezioni politiche del 25 settembre (CLICCA QUI). Nulla di miracoloso, nessun superpotere e quindi nessuna possibilità di vaticinare 6 numeri al Superenalotto avanzata da alcuni amici.

Abbiamo semplicemente seguito il filo delle considerazioni che su questo sito si leggono da almeno una decina d’anni, e tratto sensate conclusioni dall’ennesima puntata della logora telenovela sulla fase terminale della cosiddetta Seconda Repubblica. Abbiamo così individuato correttamente ogni trend elettorale poi avveratosi nelle urne, e se qualche numero non è stato centrato in pieno – ad esempio la Lega al 12%, in realtà scesa al 9 – questo è dovuto all’indole tutta piemontese di essere prudenti e non esagerare (Esageroma nen, è il motto subalpino).

Siamo ora ai commenti post elezioni, basati come sempre sui numeri, che parlano da soli e fanno giustizia di tante dichiarazioni di comodo provenienti da destra e manca.

Il non voto fa +10,5%

Il dato più significativo, al pari della netta e inconfutabile vittoria di Giorgia Meloni, è il forte aumento del non voto, che ha superato anche le nostre previsioni. Si sono recati alle urne meno di 30 milioni di italiani (29.355mila), pari al 63,8%, contro il 72,9% del 2018. In un colpo solo gli astenuti sono aumentati del 9,1%, oltre 4 milioni e mezzo di cittadini. Se però consideriamo anche chi è andato al seggio ma ha annullato la scheda o l’ha lasciata in bianco, notiamo un ulteriore incremento del non voto: le bianche sono passate dall’1,1% all’1,7% (493mila totali, +100mila sul 2018); le nulle dal 2 al 2,8% (817mila, +127mila). Ciò significa che dal 63,8% di votanti va ancora sottratto il 4,5% (1,7 bianche + 2,8 nulle), che fa scendere il voto ai partiti in lizza al 59,3%. Quindi la percentuale di chi ha scelto un partito, con o senza molletta al naso, è passata dal 69,8 al 59,3: da una volta all’altra si sono persi il 10,5% di voti validi. Se non è questo un chiaro ulteriore segnale del profondo discredito verso il teatrino della politica, ditemi voi cos’è.

Meloni, unica vittoriosa

Fratelli d’Italia è l’unico partito in lizza che può vantare un aumento – e che aumento! dal 4,3 al 26%: quasi 6 milioni di voti in più – di consensi. Non che sia cresciuto l’appeal del centrodestra nell’elettorato, dato che i voti complessivi sono aumentati di poco; è successo che la Meloni ha cannibalizzato i voti degli alleati: la Lega ne ha persi 3 milioni e 236mila, Forza Italia 2 milioni e 320mila, la galassia dei sedicenti moderati da sempre accasati a destra, cattolici e no, solo 180mila, sufficienti però per approdare sotto lo zero virgola. Salvini, Berlusconi e persino Lupi si fanno belli della vittoria di coalizione (44% contro il 37% del 2018) e del numero di parlamentari ben superiore al responso delle urne: un po’ per essere stati capaci di ottenere nella trattativa il 50% dei collegi uninominali mentre il loro peso effettivo certificato dal voto ne avrebbe giustificati meno del 40%; un po’ per il meccanismo maggioritario di una legge elettorale degna erede di Porcellum e Italicum (come sappiamo già dichiarate incostituzionali…) che distorce la rappresentanza (CLICCA QUI).

Vedremo nella formazione del governo quanto la Meloni farà contare i nuovi rapporti di forza nel centrodestra di fronte agli alleati pieni di pretese, a cominciare dal Viminale voluto da Salvini per un suo non auspicabile bis.

Letta ai titoli di coda

“O noi o la Meloni” è stato il mantra di Enrico Letta, che ci ha costruito sopra tutta la campagna elettorale. Gli italiani hanno scelto in modo netto, e il segretario Dem ne ha preso atto annunciando di portare il partito a congresso per non ripresentarsi.

La crisi del PD è di lungo periodo, ma comunque Letta ci ha messo del suo per perpetuarla. La cosa non ci stupisce, vista la scarsa opinione che abbiamo di lui (CLICCA QUI). Adesso propone una “missione costituente” per rifondare il partito mettendone in discussione “l’identità, il profilo programmatico, il nome, il simbolo, le alleanze, l’organizzazione”: un po’ tardivo come proposito, e fa sorridere il riferimento a nome e simbolo, che scatenerà gli esperti di maquillage evitando per l’ennesima volta lo spietato esame di coscienza che sarebbe indispensabile da almeno dieci anni.

I numeri dicono che Letta in percentuale non ha fatto peggio del “carissimo” Renzi – 19% contro il 18,7 – ma la presunzione era quella di condurre un testa a testa con Fratelli d’Italia, che ha finito con il prendere da solo gli stessi voti dell’intero centrosinistra (il 26%) mentre il PD è ridisceso sotto la soglia psicologica del 20%, come avevamo previsto alla vigilia. Se la percentuale rispetto al 2018 è analoga, in cifre assolute i Dem hanno perso più di 800mila voti. Che Verdi-Sinistra italiana abbiano confermato il milione di voti ottenuto nel 2018 da LeU in autonomia, e che +Europa abbia conservato quasi tutto il suo elettorato (anche questa volta non sufficiente per superare il quorum del 3%), non è bastato a compensare un PD in evidente crisi di identità, strategia e consensi.

Per strappare un sorriso citiamo il mirabolante risultato (0,6%) dell’operazione Di Maio – certamente concordata con il vertice del Nazareno – il più illustre trombato alle elezioni, considerati ruolo (capo politico dei Cinquestelle, vicepremier, ministro del Lavoro, ministro degli Esteri) e notorietà (da oltre cinque anni onnipresente in tg e salotti televisivi). Il passaggio da Grillo a Tabacci (CLICCA QUI) non gli ha giovato…

Conte aggrappato al reddito di cittadinanza

Avessimo pronosticato due mesi fa i risultati elettorali, avremmo certamente indicato il Movimento 5 Stelle sotto il 10%. La responsabilità nella caduta del Governo Draghi, l’incomprensibile contrarietà al termovalorizzatore di Roma, la difesa incondizionata del pasticciato Superbonus edilizio, avrebbero dovuto portare Giuseppe Conte nel girone dei perdenti. L’“avvocato del popolo” ha però avuto l’abilità di capire quale poteva essere la sua zattera di salvataggio: il reddito di cittadinanza. Della sua difesa ed estensione ne ha fatto il leit-motiv grillino in campagna elettorale, trovando orecchie attente non solo nei 2 milioni e mezzo di percettori, con i loro famigliari, ma anche tra chi vede ombre sul proprio futuro lavorativo e guarda con favore al mantenimento di un paracadute importante. Così alla vigilia del voto era chiara la risalita del Movimento, che avevamo quotato intorno al 15% (ha preso il 15,4%).

L’orgoglio di Conte per la “grande rimonta” confligge tuttavia con la cruda realtà dei numeri: nel 2018 il M5S aveva raccolto 10 milioni 732mila voti, primo partito al 32,7%; ora i consensi sono scesi a 4 milioni 333mila, quindi con una perdita secca di 6 milioni 400mila voti. Peggio di quanto riuscì a Renzi tra europee 2014 e politiche 2018, che in percentuale perse addirittura il 22,1% (dal 40,8 al 18,7) ma in termini assoluti “solo” 5 milioni abbondanti di voti. Non è dato sapere quanto Conte sia orgoglioso del record strappato al leader di Italia Viva…

Terzo polo come il PRI

E siamo proprio al duo Renzi-Calenda, che hanno unito le forze per la necessità di superare il quorum del 3%, lanciando a parole un “Terzo polo” in realtà espressione dei soli soci fondatori. Certamente la lista tra Azione e Italia Viva ha raccolto più della loro sommatoria indicata dai sondaggi (un 2,5% a testa), ma qui lasciamo parlare il front-man della coalizione: “Devo essere onesto, sotto il 10% è una sconfitta”. Quindi, per Calenda stesso il 7,7% ottenuto va considerato un risultato deludente. Siamo d’accordo, e lo avevamo scritto che non poteva ottenere di più “un’alleanza tattica di corto respiro (…) ristretto accordo di vertice tra i due leader (con) nessuna apertura alla società civile, al Terzo settore, all’associazionismo, ai territori (riciclando) personale politico della Seconda Repubblica che cerca di ritrovare un ruolo perduto sotto l’ennesima bandiera”.

Se poi ci si dimentica volutamente dell’esistenza della cultura democratica popolare di ispirazione cristiana, che tanto ha dato e tanto potrebbe dare al nostro Paese, i sedicenti riformisti-liberali-repubblicani possono ambire al massimo ai risultati ottenuti da PRI e PLI nella Prima Repubblica, mai sopra il 10% complessivamente. Appunto.

E adesso?

Detto ancora che, come previsto, né Paragone né De Magistris hanno raggiunto il quorum, anzi, neppure il 2%, possiamo concludere con qualche osservazione a commento generale.

Giorgia Meloni ha vinto anche perché rimane l’unico leader a non avere ancora avuto responsabilità di governo. Le perplessità sulla sua provenienza politica, la destra post-fascista e sovranista, non le hanno impedito di ottenere un chiaro successo elettorale. “Proviamo ancora questa…” sembrano dire gli italiani che hanno già sperimentato a lungo Berlusconi, inframezzato da Prodi, e poi Monti, quindi i Dem Letta, Renzi, Gentiloni; e in questa legislatura Conte con Salvini, e Conte con Letta; e infine Draghi, “il migliore”, il tecnico da tutti voluto, poi tradito da Conte-Salvini-Berlusconi e ora sostituito da chi lo ha sempre osteggiato dall’opposizione. C’è apparentemente poca logica nella politica italiana… Ma è logico che in mezzo a tanti falliti l’elettorato abbia dato ora una possibilità all’unica leader del teatrino a non essere ancora stata messa alla prova del governo.

Tra venti di guerra, crisi energetica ed economica, alta inflazione e spread in risalita, povertà in crescendo, il compito della Meloni è improbo, e sarebbe difficilissimo per chiunque. Inoltre non potrà deviare dal percorso impostato da Draghi per ottenere dall’Europa i fondi del PNRR, così come ha già fatto professione di fedeltà atlantica per accreditarsi a Washington e nelle cancellerie europee. La concretezza e gravità dei problemi non permetterà ricette estemporanee, né in politica estera né in economia, e la premier in pectore sembra esserne consapevole. Sarà anche per questo che si è messa al lavoro in un apprezzabile silenzio, che contrasta con le continue banfate di Salvini. Da come gestirà il rapporto con gli ingombranti alleati e dalla composizione del nuovo governo avremo indicazioni importanti sul prosieguo della legislatura.

Ma non ci facciamo illusioni su un cammino positivo per il nostro Paese. E non solo per l’inquietante situazione internazionale, che rende impossibile indicare una prospettiva. Considerando solo la qualità della nostra democrazia, pensiamo che il sistema politico sia arrivato a un punto di svolta: serve rifondare da subito il rapporto tra cittadini e classe dirigente, non imboccando derive presidenzialiste (che il PD Ceccanti non sia stato rieletto nel Collegio uninominale di Pisa è un segno beneaugurale…) bensì attingendo ai valori della Costituzione, la sovranità popolare, la qualità democratica dei partiti, la libera scelta degli elettori.

Basta con farlocche leggi elettorali maggioritarie create per sostenere un bipolarismo contro natura, basta con i partiti personali, con i nominati, con la politica spettacolo gestita da una ristretta oligarchia che si assicura condizioni di privilegio e ostacola in tutti i modi l’ingresso di nuovi attori.

Per salvare e rilanciare la democrazia rappresentativa, che parte dal cittadino e dalle comunità locali, incominciamo con il restituire all’elettore la piena sovranità nella scelta dei partiti e delle persone. Facciamo questo primo passo, e il termometro dell’astensionismo potrà arrestare la sua corsa.

Alessandro Risso

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione i Popolari del Piemonte (CLICCA QUI)