Stare con Biden; fino a che punto – di Giuseppe Sacco

Stare con Biden; fino a che punto – di Giuseppe Sacco

La decisione di ritirarsi dall’Afghanistan non riguarda solo il semisconosciuto popolo dell’Asia centrale che, con la propria inflessibile volontà di essere e di rimanere sé stesso ha, nei secoli, fatto delle proprie montagne “la tomba degli Imperi”. Ma che sempre ha suscitato l’amore e l’ammirazione profonda (incomprensibile al resto del mondo) di quei pochissimi occidentali che tra gli Afghani hanno avuto occasione di lavorare e di vivere.

E’ questo, il valore politico generale del ritiro delle forze armate americane, il senso in sintesi estrema del discorso pronunciato da Biden dopo la conclusione dell’affannosa opera di rimpatrio da Kabul delle truppe e degli altri agenti americani sino a ieri presenti nel paese, più un certo numero di afghani che avevano collaborato con lo straniero. Nelle sue parole, il ripiegamento dal fronte dell’Hindo Kush è infatti la conseguenza e la consacrazione di una nuova determinazione degli Stati Uniti a porre fine alla stagione della cosiddetta “nation building” e delle ossimoriche “guerre umanitarie”: una stagione di grandi operazioni militari tendenti – tra altri obiettivi – a trasformare e ricostruire alcuni sfortunati paesi ad immagine e somiglianza dell’America.

La probabile sincerità di un Presidente

Contrariamente a quanto è, di norma, prudente fare con la maggior parte dei politici, sembra in questo caso possibile credere alla sincerità di questa dichiarazione dell’attuale Presidente degli Stati Uniti. Anche perché Biden non si è presentato come l’anima di una improbabile America pacifista, ma solo come un leader fautore di un ri-orientamento della presenza militare del suo paese nel mondo, soprattutto per prepararsi alle “nuove sfide” poste da Mosca e Pechino.

Piuttosto coraggiosamente, l’uomo della Stanza Ovale si è infatti assunto le responsabilità del modo caotico e molto mal programmato con cui si è svolto il ripiegamento militare, responsabilità che ad un osservatore obiettivo appaiono soprattutto spettare ai vertici militari e ai molti servizi segreti di cui Washington è dotata durante le ultime Amministrazioni. Ed ha così confermato di considerare l’abbandono del territorio afghano “una decisione saggia”.

In ogni caso, “non avrei prolungato questa guerra per sempre” ha detto Biden, che perciò non ha mancato di sottolineare di averla ereditata – questa interminabile guerra – da una molteplicità di suoi predecessori, sia Repubblicani che Democratici, così come ha ereditato da Donald Trump e dalla sua Amministrazione quell’accordo di Doha cui aveva fatto seguito il rilascio di 5.000 quadri delle forze talebane.

Quanto all’’opinione pubblica americana, peraltro, essa sembra concordare con il suo Presidente. Un sondaggio del Pew Research Center ha infatti rilevato che il 54% degli adulti statunitensi è d’accordo con la decisione di Biden di ritirarsi dall’Afghanistan, anche se è solo poco più di un quarto del pubblico quello che si è spinto fino a dire che le autorità hanno fatto un buon lavoro riguardo al ritiro. ll 42% è invece convinto che l’amministrazione non abbia ottenuto un buon risultato.

Il prezzo pagato alle lobbies

 Ciò che appare invece meno logico, e chiaramente più retorico ed insincero del discorso di Biden, è  l’affermazione relativa all’esistenza di una minaccia proveniente al tempo stesso da parte russa e cinese.

Che l’ex Impero di mezzo rappresenti un pericolo più che serio per l’egemonia economica degli Stati Uniti è un fatto obiettivo e indiscutibile. E ciò nonostante che le tradizioni politiche cinesi siano più di isolamento che di coinvolgimento nella realtà internazionale. E nonostante il fatto che  la crescita economica degli ultimi quarant’anni abbia preso le mosse proprio dal momento in cui sono stati stabiliti rapporti di amicizia con gli Stati Uniti, che li abbia a lungo presi a modello, e che sia stata determinata da un’occidentalizzazione del sistema produttivo, accompagnata da  enormi investimenti in primo luogo americani, attratti dal costo del lavoro estremamente basso.

Ma non è questo il caso della Russia, un paese la cui economia si trascina penosamente dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, e  ancor più dopo i saccheggi dell’epoca di Yeltsin  da parte degli oligarchi.  Ed è ancor meno il caso di un paese che ha molto da temere dalla rinnovata potenza cinese, dato che i suoi territori più orientali sono stati appunto conquistati alla Cina durante l’espansione coloniale zarista verso oriente, e dato che la situazione demografica dai due lati della frontiera russo-cinese appare drammaticamente  squilibrata,  con le province cinesi confinanti con la Russia popolate da 135 milioni gli abitanti, mentre le province russe – ricche di acqua, terra fertile, e minerali – confinanti con la Cina ne hanno soltanto otto  milioni.

Il riferimento, nel discorso di Biden, alle “nuove sfide” che verrebbero tanto la Mosca quanto da Pechino sembra  dunque, per quel che riguarda la Russia, essere un prezzo retorico- politico che il Presidente degli Stati Uniti ha ritenuto di  non poter non pagare alla potentissima lobby costituita dagli ambienti  burocratici che vivono ancora di rendita sulla contrapposizione tra America e Urss: non solo gli ambienti militari,  ma anche quelli, dall’industria degli armamenti, dello spionaggio e dell’antiterrorismo, l’ultimo dei quali in particolare si è propagato negli ultimi vent’anni, come una metastasi in tutte le società occidentali.

Giuseppe Sacco