Parte dall’Afghanistan una “dottrina” Biden? – di Giancarlo Infante
L’Afghanistan è caduto perché non ha voluto puntare su se stesso. Nessuna ragione quindi per non rispettare gli accordi di Doha. Quelli conclusi dal predecessore Trump con i Talebani. Il contrario avrebbe richiesto la disponibilità a impegnarsi in una ” esclalation” e, quindi, trovarsi a fronteggiare la concreta possibilità di passare ancora ad successivo, quinto, Presidente Usa la sanguinosa patata bollente dell’occupazione di un paese che è sempre stata la “tomba di tutti gli imperi”. L’ipotesi di un nuovo Vietnam avrebbe potuto essere l’opzione opposta a quella di lasciare l’Afghanistan.
Questa la sostanza del secco discorso con cui Joe Biden ha fornito agli americani e al mondo la spiegazione di una scelta che riporta le lancette dell’orologio dell’Afghanistan indietro di vent’anni, e forse ancora di più, riconsegnato com’è nella pienezza delle disponibilità dei Talebani.
Il Presidente Usa ha smontato vent’anni di storia Usa, e dell’Occidente che l’ha condivisa. Non si trattava di costruire una nazione, ma solo di combattere il terrorismo di Bin Laden e di al Qaeda, ha detto Biden. Quindi, era dovere degli afghani prendere nelle proprie mani il proprio destino. Ma a niente sono serviti i mille miliardi di dollari spesi per fornire a quel lontano paese orientale il meglio degli equipaggiamenti necessari ad un esercito di circa 300 mila uomini, molto più consistente di quelli di altri paesi alleati degli Stati Uniti d’America. E non poteva essere ancora lasciata ai russi e ai cinesi l’opportunità che gli Usa spendessero ingenti risorse per un paese incapace a ricostruirsi da solo.
Letto con gli occhi americani, un discorso del tutto atteso e coerente, soprattutto dopo le profonde modifiche intervenute nella sensibilità degli statunitensi dopo che lo slogan trumpiano ” America first” li ha così tanto permeati. Il discorso di Biden conferma che si tratta di un punto di non ritorno. Sarebbe un errore non tenerne conto, anche in considerazione del fatto che potrebbe riguardare, d’ora in poi, non solamente l’Afghanistan.
Da Biden solo un accenno alla smentita dell’ottimismo con cui lui stesso aveva pensato che almeno Kabul non sarebbe caduta tanto in fretta. Al punto di essere costretto a inviare nelle ultime ore 4 mila uomini, in aggiunta ai 2500 ancora rimasti e che avrebbero dovuto essere ritirati a seguito degli accordi sottoscritti da Trump nella capitale del Qatar.
Biden ha liberato i piedi degli Usa finiti nella morsa della tagliola afghana. Tutta l’America tira un sospiro di sollievo. Non è un caso che la maggioranza della opinione pubblica del suo paese è con lui, nonostante non abbia fatto piacere vedere in tv le scene strazianti dei tentativi di fuga dei tanti impauriti dall’arrivo dei Talebani e che non si fidano delle loro promesse. Immagini che si alternavano a quelle di alcuni dei vincitori dotati solo di armi leggere. Non abbiamo visto un poderoso esercito occupare Kabul. Forse, a conferma della considerazione che più di una loro vittoria militare si assiste alla completa liquefazione di un apparato statale inconsistente, a dispetto delle ingenti risorse e delle energie profuse da tanti paesi, Italia compresa.
Gli Usa oggi non hanno più gli stessi interessi di vent’anni fa. Guardano la cartina mondiale e focalizzano l’attenzione su aree diverse da quelle prese in considerazione negli ultimi 50 anni. Anche la questione afghana è vissuta oggi più in relazione al confronto con la Cina, piuttosto che occupandosi in modo preminente delle vicende del mondo musulmano, in particolare di quello del Golfo Persico e del Mediterraneo.
In qualche modo, il messaggio di Biden potrebbe persino giungere a riguardare taluni altri alleati degli Usa: cominciate a prendere in mano il vostro futuro perché non è detto che gli americani possano e vogliano farsene loro carico. Il divenire ci dirà se, in questo senso, non prenderà corpo una vera e propria dottrina Biden che ci possa riguardare.
Così, le amare domande che ci restano sono solo tre: crederemo ancora nel futuro all’esportazione della democrazia? In che modo, però, nel preoccuparci dei fenomeni terroristici, non solo di quelli perpetrati a casa nostra, essi potranno essere combattuti? Nonostante il fallimento del modello afghano della difesa dei diritti di tutte le fedi religiose, delle donne, della libertà di poter vivere in una società plurale e pluralista come sarà possibile lasciare vivo un impegno internazionale in tal senso? Un impegno che fu indicato per primo, oltre cento anni fa, del presidente americano Wilson e rinnovato con la Seconda guerra mondiale con la lotta al nazifascismo e all’imperialismo giapponese.
Biden ha detto in sostanza che questi principi non possono più essere assicurati con le armi, ma che deve intervenire una nuova visione basata sulla diplomazia e sull’economia. Una dottrina, però, appena accennata in un contesto drammatico a proposito del quale non si vede ancora una strategia davvero utile a tutelare gli afghani di oggi.
Per ora, gli europei e l’Onu parlano della difesa dei diritti di quel popolo, ma già si registrano le difficoltà nel fare espatriare almeno quelle poche migliaia di afghani che hanno collaborato con gli occidentali convinti di assicurare al loro paese un futuro diverso in maniera duratura.
Giancarlo Infante