Dal leaderismo alla collegialità – di Domenico Galbiati

Dal leaderismo alla collegialità – di Domenico Galbiati

Quando parliamo di “collegialità” del partito, il riferimento è duplice. Concerne la fisionomia, la “cifra” distintiva di un partito nuovo, la ricerca di una forma adatta al nostro tempo, che contrasti il leaderismo oggi imperante, alternativa al “pensiero unico” ed insindacabile del capo politico o del guru di giornata.  Ma anche la relazione, non più collaterale, come succedeva nel secolo scorso, ma, appunto “collegiale”, orizzontale e paritaria, che il partito, nella misura in cui assume il compito del “servizio politico” alla comunità, deve intrecciare con mondi vitali ed associativi di varia natura.

Mondi che vanno valorizzati ed incoraggiati, invitati, a loro volta, a “pensare politicamente”, orientati al “bene comune”, evocati ad una responsabilità partecipe ed attiva. In un momento storico del tutto particolare.

Laddove nessuno può disporre ed autoritativamente “comandare” dall’alto di una impalcatura piramidale le possibili evoluzioni di una realtà  complessa, tale per cui solo la coralità delle voci, riportata dalla politica ad una sintesi intellegibile, può consentire una qualche forma di effettivo governo.

I partiti, peraltro, esigono comunque una gerarchia ed un principio di autorità che è tanto più ’ efficace se attinge alla fonte dell’autorevolezza piuttosto che alla categoria del comando, sia pure asseverato da una procedura democratica.

Il partito politico, infatti, è o dovrebbe essere una comunità di pensiero e di azione, in cui ciascuno conserva, anzi coltiva la propria autonomia di giudizio, ma, ad un tempo, conferisce la propria capacità critica e la propria passione civile ad un contesto collettivo, accettando preventivamente – salvo la propria libertà di coscienza ove temi di particolare impegno morale lo esigessero – di concorrere alla formazione di una visione comune, cui attenersi, anche laddove il proprio avviso dovesse dissentire o distinguersi dall’approdo condiviso dai più.

Nei partiti possono esserci magnifici solisti, eppure è la coralità che conta. Del resto, il fatto che un Maradona possa mettere a segno il gol decisivo, in qualunque momento ed in modo impensabile, non significa affatto che vinca da solo la partita che, al di là dell’ acuto che dura un’istante, si prolunga, più o meno grigia, per novanta minuti.

Anche la politica, in buona sostanza, è un gioco di squadra. Insomma, la dimensione “collegiale” è costitutiva di una forza politica, eppure non è facile da mettere in opera. E’ fondamentale per qualunque partito  perché è la politica, in sé, ad essere un dominio, un campo di questioni in cui, per eccellenza, “tutto si tiene”. Sconnettere e frammentare, scomporre e separare è il mestiere dell’antipolitica, il cui obiettivo è impedire una visione d’insieme, così da consegnare, per parti separate e distinte, temi, che solo focalizzando le connessioni reciproche si potrebbero governare, a poteri “altri”.

Senonché questo nuovo modo d’intendere, anzitutto, lo sviluppo delle funzioni gerarchiche comunque necessarie – ad esempio tra livelli organizzativi di differente caratura territoriale – nell’ambito del partito, non è offerto su un piatto d’argento, ma va sperimentato e costruito. E’ una scommessa per nulla scontata, ma pur necessaria se vogliamo ridare al partito una coralità di impegno che corrisponda al suo carattere “popolare”, bene perfino più prezioso di una qualche unità più o meno formale. Si potrebbe, anzi, dire che la collegialità è la vera unità che ci serve oggi, in quanto la attesta sul piano del costume politico e della modalità di lavoro comune, senza confonderla con una forzosa uniformità di posizioni.

Un  partito è vitale quando, nella cornice di un impegno ideale davvero condiviso, conserva quei margini di dialettica interna che impediscono di affondare nella morta gora di una grigia omologazione di tutto e di tutti. Poiché, al di là di tutte le teorizzazioni possibili, le cose camminano sulle gambe degli uomini, per passare dal “leaderismo”, più o meno stentoreo e decisionista, a quella dimensione di “collegialità”, apparentemente più umile, ma potenzialmente ricca, occorre che gli attori della vicenda politica siano capaci di ascolto, capaci di emendare quel po’ di narcisismo che alberga in ognuno di noi, insomma attenti al dato oggettivo in sé delle questioni in campo, piuttosto che a pur legittimi interessi di parte o a quel tanto di umoralità cha mai si può escludere del tutto.

E’ esagerato, fuori luogo  ritenere – senza cadere in un vuoto moralismo – che una politica rinnovata esiga politici che facciano su sé stessi un certo lavoro di affinamento di atteggiamenti ed attitudini personali? Acquisiscano, anche se può sembrare utopico, quel tanto di gratuità, di distacco e di disinteresse personale che permetta di osservare quella giusta distanza dall’oggetto del contendere “, che risulta indispensabile a coglierne l’effettiva natura?

Se il rifiuto del leaderismo sul piano del metodo ed il “tutto si tiene” a livello dei contenuti rinviano alla “collegialità”, altrettanto fanno la competenza  e le competenze. Le competenze come sapere “tecnico” esigono di uscire dalla loro settorialità specialistica e di connettersi in una forma, anche qui, sostanzialmente di “collegialità. Il che è, a maggior ragione, vero laddove le competenze plurali, nella loro varia articolazione, devono essere concepite in funzione della “competenza politica”, cioè di quel sapere sovraordinato alla particolarità degli ambiti tecnici, difficile da definire, non ascrivibile ad una disciplina accademica, ma vivo e vitale, intrinseco alla politica come vissuto quotidiano che attraversa la comunità.

La personalizzazione delle leadership, l’evocazione del “capo carismatico” dietro il quale camminare allineati e coperti, delegandogli il proprio  pensiero, in cambio di un rassicurante sentimento di accasamento nel gruppo, è apparentemente la via più comoda e meno faticosa, senonché, in ogni caso, finisce per alienare chi le si affida fino ad essere omologato nel gregge.

Oggi il discernimento politico, la facoltà di pensare in proprio costa fatica, esige un impegno cognitivo e psicologico non indifferente, implica una responsabilità che risulta più comodo scansare, ma rappresenta la condizione “sine qua non” per esercitare un reale diritto di cittadinanza.

Ed il compito di un partito del nostro tempo – stagione della complessità ed, insieme, della conoscenza – consiste anche nell’allargare questo processo, nel dilatare quanto più’ possibile l’area di coloro che si prendono la briga di “pensare politicamente”.

Domenico Galbiati