Draghi e i suoi novanta giorni di verità – di Giuseppe Sacco

Draghi e i suoi novanta giorni di verità – di Giuseppe Sacco

Novanta giorni esatti sono trascorsi dal giorno, il 19 febbraio 2021, in cui la Camera dei Deputati, con  535 SI è 56 NO, ha confermato a Mario Draghi la fiducia già concessa il giorno precedente dal Senato della Repubblica. Ed anche se qualcuno, in particolare Paolo Mieli, in una trasmissione con Lucia Annunziata, ha trovato sorprendente che il nuovo Presidente del Consiglio non si sia concesso un periodo di assuefazione al suo nuovo ruolo, egli si è messo immediatamente ed alacremente al lavoro. Com’era peraltro drammaticamente reso necessario dalla grave epidemia che ha colpito l’Italia, più precocemente e più gravemente degli altri paesi ad essa comparabili.

Non sembra perciò troppo frettoloso, già dopo soli novanta giorni, tentare una prima valutazione dell’efficacia sinora dimostrata della nuova compagine governativa, e dell’attuale situazione del Paese. Anzi, operazione ancora più interessante, sembra già possibile analizzare in controluce il significato dell’uscita dell’Italia da una caotica fase in era stata affidata a due successive e assai diverse maggioranze, che però avevano come asse portante lo stesso improvvisato leader e lo stesso raccogliticcio movimento pseudo-politico.

Un momento di verità appariva in realtà indispensabile sin dalle rovinose elezioni politiche del 2018. Ed è stato, del resto, proprio per far fronte a questa urgenza che, per iniziativa del Presidente della Repubblica, la grande maggioranza del Parlamento si è affidata alla personalità italiana internazionalmente più nota, più discussa, e più stimata. Mario Draghi, dal canto suo, così come, consapevole che non c’era più un minuto da perdere, si è dimostrato anche molto avvertito del carattere infido del terreno sui cui egli si sarebbe dovuto muovere. E’ stato perciò molto attento a “mettere in sicurezza” quelle aree della propria azione governativa che risultavano più particolarmente esposte alle pressioni delle lobbies e ai comportamenti demagogici.

Ha perciò confermato un ministro tecnico, il prefetto Luciana Lamorgese agli Interni; ministero che dovrà far fronte agli sbarchi di immigranti illegali, un ambito in cui – con 2000 arrivi in un giorno – abbiamo, verso il 10 maggio, avuto un preannuncio di quella che inevitabilmente sarà un’ondata incontrollabile, non appena le condizioni meteorologiche lo permetteranno. Un altro tecnico, che non ha interessi elettorali da perseguire con comportamenti populistici e demagogici, il Direttore Generale della Banca d’Italia, Daniele Franco, è andato al Ministero dell’Economia e delle Finanze, cui è stato affidato un importante ruolo, specie in un momento  in cui lo Stato non può non impegnarsi dapprima in una complessa opera di compensazione dei danni e delle distruzioni portate dalla pandemia, e poi nel rilancio dell’economia nazionale nel suo insieme.

Draghi ha infine mantenuto al cruciale dicastero della Salute Roberto Speranza: un politico, certo, ma di una razza che sembrava scomparsa, e Segretario di un minuscolo partito che chiaramente tende più ad essere un punto di riferimento ideologico che un magnete di consenso di massa. Un Ministro che aveva già dimostrato di saper mantenere con fermezza la più difficile posizione di prima linea, cui non a caso Draghi ha deciso – e lo ha esplicitamente detto a coloro che demagogicamente lo attaccano – di fare scudo con la propria persona.

Draghi, infatti, non si illude di poter ottenere e dalle forze “politiche” che formano la sua maggioranza un affidabile sostegno all’opera di vero e proprio salvataggio cui il Presidente della Repubblica ha chiamato l’ex-Presidente della BCE. Ciò non era, e non è pensabile, da parte di un Parlamento sgangherato come quello attuale, scelto da un corpo elettorale che ha votato per gli ultimi venuti sulla scena elettorale, principalmente a dispetto di coloro che avevano occupato Palazzo Chigi dal 1992  a questa parte, in una tornata elettorale in cui tutti i sondaggi prevedevano che ci sarebbe stato un altissimo tasso di astensioni, ed un minimo di spirito unitario.

Di fronte ad un tale quadro parlamentare, Draghi ha creato le condizioni per mantenere all’interno nella sua rabberciata maggioranza parlamentare i contrasti creati dalle demagogie contrapposte, ma accomunate dall’idea che le scelte politiche vanno fatte per ottenere voti, e non che i voti vadano cercati per poter porre in atto un progetto politico prestabilito. Ciò ha paradossalmente consentito di tenere relativamente al riparo la compagine governativa.

Ed è infatti quel che si è verificato, permettendo all’esecutivo di dedicarsi ai compiti più strutturali ed urgenti. Innanzi tutto ad una sostanziale revisione dei piani di utilizzo delle risorse che potrebbero rendersi disponibili a seguito del New Generation EU, correggendo la polverizzazione in mille rivoli che caratterizzava il progetto del governo Conte, per riaccorpare la spesa di investimento su alcune grandi infrastrutture, e – ancora più determinante – focalizzare l’attività di riforma sui cruciali temi, a carattere strategico e di lunghissimo orizzonte temporale, della Pubblica Amministrazione e della Giustizia. Il tutto in contemporanea con uno sforzo di porre un minimo d’ordine nel caos creato dall’incompetenza e dall’inefficienza, dall’avidità di denaro e di potere, e in definitiva anche dalle tendenze separatiste delle Regioni. Vizi strutturali e  degenerazioni in qualche modo collegate a rapporti internazionali, che alla fine tendevano a fare tutt’uno con le diverse pressioni a carattere  demagogico delle varie componenti della maggioranza.

A queste pressioni, ai litigi tra PD e Lega, ed alle contrapposte ma complementari demagogie elettoralistiche e clientelari, Draghi ha fatto anche qualche concessione. Al partito degli osti, e delle mescite di bevande alcoliche, rappresentato dall’ineffabile Salvini, il Presidente del consiglio ha elargito alcune riaperture, un po’ avventatamente definite “rischio ragionato”.

La riapertura dei cinema, dei teatri e dei musei è stata, per contrappeso, elargita alle “sinistre”. Non perché gli interessi economici in ballo fossero comparabili a quelli che ispirano le posizioni della Destra, ma perché, se Salvini punta ai voti nel settore delle palestre, degli stabilimenti balneari e dei  divertimento, la sinistra punta ad ingraziarsi e avere buoni rapporti con il personale pseudoculturale che ruota attorno al mondo dello spettacolo: un mondo assai meno numeroso che non quello di Salvini, ma un ambiente che ha una certa visibilità, e soprattutto un forte accesso ai media, soprattutto alla televisione, accrescendo cioè il controllo e quella patina culturale cui le sinistre mirano da sempre nelle strutture pubbliche della comunicazione.

Destreggiandosi così nell’ambigua maggioranza che non ha potuto fare a meno di costituirsi attorno dopo che la decisione del Capo dello Stato lo ha portato a Palazzo Chigi, Draghi ha inoltre mirato a portare avanti la campagna vaccinale il più rapidamente e più efficacemente possibile. Il che non è stato facile, in una situazione marcata dai danni collaterali di una vera e propria guerra economica  scatenatasi tra i produttori per assicurarsi il gigantesco business in atto, ed ancora di più la rendita futura nel probabile caso che la vaccinazione contro il Covid diventi una necessità da ripetere anno dopo anno.

Ma se ha posto termine all’inefficienza nel Governo Conte, e alla maniera caotica in cui è stata sinora gestita la pandemia – soprattutto per colpa delle regioni, e della loro tendenza a scaricare sullo Stato la responsabilità della loro incompetenza, dei loro errori, e magari delle loro scorrettezze –, Draghi non ha comunque potuto recuperare la pesante eredità negativa trasmessagli dal governo precedente. Lo si è visto nell’andamento quotidiano del morbo che, se  in questi tre mesi ha registrato una lenta discesa dei contagi e delle ospedalizzazioni, sembra invece marcare il passo in quanto a decrescita del  numero dei morti.

Ma come poteva essere diversamente? L’alto numero dei morti è la conseguenza diretto dello spreco che dei vaccini si è fatto sin dalla prima ora,  dando la precedenza non solo a categorie come gli avvocati toscani, ma anche e soprattutto ad amici e parenti, rispetto a coloro cui un tale priorità sarebbe spettata, cioè agli anziani e ai veri fragili. E come può essere diversamente oggi? In una situazione tuttora perdurante che vede  le regioni giocare con l’idea di vaccinare i turisti in arrivo, mentre circa 2 milioni di ultrasettantenni risultano non aver ancora ricevuto la prima dose.

E’ questa una classe d’età di Italiani particolarmente esposti al rischio del contagio, tanto che i loro morti sembrano aver già garantito all’INPS un risparmio annuo di un miliardo di Euro. Sono anche una categoria demografica e sociale, quella dei “nonni” che – come ha detto in TV una giovane italiana del XXI secolo – “se devono morire, moriranno”. Una minoranza ignorata e trascurata – di cui peraltro non sembrano interessati coloro che tanto appassionatamente discutono la Legge Zan – ma che se, da un lato, finirà probabilmente per essere vittima en masse delle aperture decise “con rischio calcolato” e di decisioni arbitrarie come quella di posticipare la seconda dose, contro il parere degli scienziati e delle case farmaceutiche produttrici dei vaccini, potrebbe al tempo stesso essere la scintilla che dimostra tale calcolo come troppo azzardato. E il moltiplicarsi  tra di essi dei contagi, di lunghe degenze favorevoli a ulteriori mutazioni, e di morti sempre più irrilevanti e dimenticate potrebbe costituire, l’hotbed, il terreno di coltura della non ancora esclusa “quarta ondata” che potrebbe colpirci in piena estate.

Giuseppe Sacco