La crisi umanitaria di Gaza – di Giancarlo Infante

La crisi umanitaria di Gaza – di Giancarlo Infante

La situazione a Gaza City è diventata di nuovo drammatica. Siamo di fronte all’ennesima crisi umanitaria in un piccolo fazzoletto del mondo sottoposto a pesanti bombardamenti. Sono consapevole che ogni discorso, definiamolo così, “umanitario” rischia di lasciare il tempo che trova. A maggior ragione riferendosi alle questioni mediorientali. In particolare quelle afferenti lo scontro tra Israele e i palestinesi, che devono sempre essere interpretate, se ci si riesce, e che non possono far dimenticare come tutte le parti coinvolte abbiano la loro abbondante parte di ragioni e di  torti.

Oggi si è costretti ad apparire naive se si parla di esseri umani, ma siamo nella condizione di non poter, oggettivamente, fare molto di più. In realtà, molto di più si potrebbe fare, se solo si trovasse la volontà di svolgere una funzione costruttiva, soprattutto da parte di chi in quella regione conta e decidesse davvero di utilizzare tutti i mezzi a disposizione per far cessare un conflitto che dura oramai da troppi decenni.

Se i palestinesi di Gaza vivono una delle esperienze più drammatiche della loro storia, fatta già di povertà, esclusione e rancore, non è che gli ebrei d’Israele se la stiano passando meglio. Anche se c’è un’evidente sproporzione tra i danni inflitti dal potente esercito dello Stato ebraico e la limitata potenza di fuoco degli altri.

In questo contesto è chiaro quanto sia difficile trovare una via d’uscita. Israele dice di aver bisogno di uno, due giorni in più di bombardamenti, tanti sono gli obiettivi da colpire, evidentemente studiati con cura da tempo. Hamas e la Jihad islamica palestinese non intendono mollare e, anzi, minacciano di poter prendere di mira soprattutto Tel Aviv in cui anche uno sporadico arrivo di un missile artigianale potrebbe causare vittime, feriti e danni.

Mark Regev, un collaboratore del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha detto alla BBC che Israele sta cercando una “pace sostenibile” piuttosto che una soluzione a breve termine ( CLICCA QUI )” prima di aggiungere: “vogliamo uscire da questa situazione con una soluzione che porterà un periodo sostenibile di pace e tranquillità, non con una soluzione rapida che cadrà a pezzi molto rapidamente”. Peccato che la pace non la si raggiunga seguendo la politica degli insediamenti dei coloni ebrei a prezzo di sfrattare famiglie arabe da Gerusalemme Est. Cose che, tra l’altro, sono contrarie ad ogni legge internazionale.

Flebili pure le voci che, nell’altro campo, si levano per auspicare un cessate il fuoco il quale, probabilmente, non porterà se non ad una soluzione temporanea, in ogni caso auspicata dalla gente di una parte e dell’altra, a meno che non sbocchino in serie trattative per giungere ad una pace legate al riconoscimento del diritto di esistenza di Israele entro frontiere sicure.

La realtà concreta delle cose, intanto, è riassunta dal New York Times ( CLICCA QUI ). Sei ospedali e otto cliniche di Gaza hanno subito danni. Limitate le cure mediche disponibili per molte persone che vivono nell’area. Ad ieri, le bombe israeliane avevano distrutto 132 edifici residenziali e danneggiato 316 unità abitative così gravemente da risultare inabitabili. Secondo l’agenzia per gli Affari umanitari delle Nazioni Unite, più di 40.000 persone sono state costrette a vivere in rifugi improvvisati e altre migliaia hanno dovuto cercare alloggi d’emergenza presso amici o parenti. I sistemi fognari sono stati distrutti e un’acqua fetide ha invaso le strade di Gaza City. Un importante impianto di desalinizzazione che fornisce acqua dolce a 250.000 persone è fuori uso, le condutture dell’acqua che servono almeno 800.000 persone sono state danneggiate. Le discariche dei rifiuti sono chiuse, con la spazzatura che si accumula. Dozzine di scuole sono state danneggiate o chiuse e, così, 600.000 studenti devono saltare le lezioni.

E’ evidente che si guardi tutti agli Stati Uniti per questa pace irraggiungibile e  complicata, davvero complicata da ottenere. Come del resto ben sappiamo da decenni, nel corso dei quali ci siamo a volta fatti illudere da premi Nobel concessi a questo o quel protagonista per poi ripiombare nella disillusione.

Joe Biden ieri è uscito dal suo torpore chiedendo  per la prima volta, dopo ben nove giorni, la cessazione delle ostilità. Eppure, facevano riflettere le quasi contemporanee dichiarazioni del Segretario di stato Usa, Antony Blinken, secondo il quale gli Stati Uniti sarebbero pronti ad aiutare se Israele e Hamas “manifestassero interesse a porre fine alle ostilità”, ma che gli Stati Uniti, altrimenti, non chiederanno in tal senso perché, questo è il concetto, “alla fine spetta alle parti chiarire che vogliono perseguire un cessate il fuoco”( CLICCA QUI ).

Una prima domanda che può porsi della gente comune, non certo quella di tanti analisti ancorati alla fredda realtà dei grandi giochi internazionali, è evidentemente se basti limitarsi ad accontentarsi di aspettare che, dopo essersele date di santa ragione, i contendenti decidano altrimenti.

La seconda è forse più raffinata, tutta da verificare, e che ne apre inevitabilmente una successiva. Ma siamo sicuri che così facendo gli Stati Uniti svolgano davvero il ruolo che ci si attende dalla più grande potenza del mondo o sta dimostrando un’intrinseca debolezza su cui è venuto il momento di interrogarsi?

Un quesito che alla Casa Bianca, verso cui sempre più forti giungevano gli inviti di esponenti della maggioranza democratica per un intervento risolutore dell’attuale sanguinosa crisi, qualcuno ha cominciato a porsi. Ed ecco che si parla di una ferma presa di posizione assunta direttamente da Joe Biden nei confronti di Netanyauh ( CLICCA QUI ). Ne seguiremo gli esiti. Soprattutto vedremo se sarà servita ad evitare la preannunciata serie di bombardamenti finali che l’esercito israeliano ha programmato per portare un definitivo duro colpo alla rete dei tunnel sotterranei, la “Metro” di Gaza, utilizzati da Hamas. Il che significherebbe la distruzione di una buona parte della città ancora rimasta in piedi.

Anche l’Europa sembra risvegliarsi dopo il viaggiare in ordine sparso dei giorni scorsi, vedasi l’incontro di Macron con l’egiziano al Sisi e la telefonata della signora Merkel con il Re di Giordania, da cui sono venuti fuori due separati appelli alla tregua. E’ giunta finalmente a chiedere che cessi il fragore delle armi e si operi per l’avvio di un “serio processo diplomatico”. Ma c’è l’adeguata percezione di quanto sta accadendo sia questione anche europea, visto che si svolge nel pieno di quella che è la naturale frontiera meridionale di noi europei.

L’Italia, ancora una volta, è presa con le sue cose: dissidi interni, chiusure e aperture, piano vaccinale e così via. Ancora una volta non riusciamo a battere un colpo. Certo, inutile nascondercelo, il nostro peso è relativo. Soprattutto perché abbiamo sprecato decenni durante i quali avremmo potuto provare ad assumere un ruolo nel Mediterraneo. Non tanto nell’ottica di rispolverare, come fanno altri, mai sopite ambizioni coloniali, ma per essere continua spina nel fianco di una Europa che non crescerà mai se non sarà all’altezza di portare al di là dei propri confini ciò che al proprio interno è stata capace di fare spezzando una spirale bimillenaria di conflitti e di ostilità. Avrebbe l’autorità e le risorse economiche per farlo

Giancarlo Infante