Biden, Putin e la Cina: un brutto inizio- di Edoardo Almagià

Biden, Putin e la Cina: un brutto inizio- di Edoardo Almagià

PremessaA quasi tre mesi dall’elezione del presidente Biden non solo nessuno sembra più ricordare Trump, ma è altrettanto vero che il panorama internazionale ha ripreso a muoversi. Quello con il resto del mondo è un dialogo che riprende e, gradualmente, la nuova amministrazione americana sta ponendo le basi per una propria azione diplomatica e per l’apertura di nuovi temi di confronto.

Anche se la precedenza è data alle questioni domestiche, quali sanare le ferite dell’America, superare gli effetti del Coronavirus ed affrontare la crisi dell’economia, in politica estera stiamo assistendo al delinearsi di alcune tendenze di fondo che caratterizzeranno gli anni a venire.

Innanzitutto, una rinnovata disponibilità verso l’Europa che gli Stati Uniti vogliono al loro fianco nel confronto con la Cina. Sempre insieme all’Unione e con l’Alleanza Atlantica, Washington vuole ridimensionare a tutti gli effetti l’azione di Mosca e sottolinea come sia più facile per la Russia esercitare pressioni su paesi isolati piuttosto che su di un gruppo di alleati compatti nelle loro vedute. Questo è particolarmente vero riguardo la sfida posta in Ucraina, tutt’ora aperta e sempre sul punto di riesplodere.

Diverso anche il modo di guardare al Medio Oriente. Pur mantenendo gli impegni stabiliti con gli accordi di Abramo, ratificati sotto la presidenza Trump,  la Casa Bianca sta riequilibrando le proprie posizioni nella regione prendendo qualche distanza da Israele e dalla monarchia saudita. Ha inoltre manifestato la disponibilità a riaprire un dialogo con l’Iran riguardo l’accordo sul nucleare e a riproporre la soluzione “dei due Stati” per risolvere la questione palestinese.

Grave per Washington la sfida posta dal ritiro delle truppe Usa dall’Afghanistan. La data del  1 Maggio non sembra praticabile e gli Stati Uniti dovranno riflettere sui termini del loro effettivo ritiro. Molti considerano la conferenza di Doha con i Talebani come uno scacco perché non sufficiente a far raggiungere gli obiettivi sperati. La posta in gioco è cruciale, dato che si tratta di fissare in qualche modo i risultati di vent’anni d’intervento occidentale.

È ovvio che gli Stati Uniti dovranno pensare bene a non prendere decisioni precipitose dopo tanti sacrifici e sofferenze. Un processo di pace, infatti, non dovrà essere foriero di nuove violenze: gli americani e i loro alleati si sono battuti per vent’anni per portare nel Paese una serie di valori e di libertà che vanno difesi e rispettati. Il presidente Biden sta cercando, allora, d’internazionalizzare il problema.

Già da queste poche righe risulta evidente come la nuova amministrazione americana stia iniziando a muoversi ad alto livello sulla scena internazionale.

Lo screzio con Putin:   Si è assistito di recente ad uno scambio di accuse tra Biden e Putin. Il presidente americano, nel corso di un’intervista alla rete nazionale ABC, aveva definito il suo omologo russo un “killer”. Putin gli ha risposto che se si guarda al passato degli Stati Uniti, non vi è poi molto su cui fare la morale, essendosi trattato di un susseguirsi di uccisioni e di massacri. Ecco più o meno come sono andate le cose.

Durante l’intervista, George Stephanopoulos gli ha posto la seguente domanda: “Lei conosce Vladimir Putin. Pensa che sia un assassino?”. “Lo penso” ha detto il presidente americano, alludendo quasi certamente al tentativo di avvelenamento che ha visto coinvolto il dissidente russo Navalny. Ha poi aggiunto, rispondendo ad un’altra domanda, che nel giro di qualche tempo il presidente Putin si sarebbe accorto del senso della sua risposta.

In segno di protesta, il Cremlino ha subito ordinato il ritiro del suo ambasciatore da Washington. Quasi in contemporanea, il presidente della Camera bassa del Parlamento russo (Duma), puntando il dito contro Biden, ribatteva lanciandogli addosso l’accusa di avere insultato Putin e offeso la Russia. E’ stato poi lo stesso Putin nel corso di un incontro in Crimea ad affermare in tono scherzoso, facendo riferimento ad un gioco per bambini e tanto per rimettere al suo posto Biden, che: “Chi lo dice sa di esserlo. E non è un caso, non è solo un modo di dire per bambini, uno scherzo, vi è un significato psicologico molto profondo”. Ha poi aggiunto: “Vediamo sempre le nostre qualità in un’altra persona e pensiamo che questa sia come noi e basandoci su ciò diamo il nostro giudizio”.

Putin ha anche sottolineato che i rapporti tra i due paesi devono svolgersi con un tono diverso e che “la Russia coopererà con gli Stati Uniti ogniqualvolta lo ritenesse conveniente”. Ha poi fatto seguito una serie di altre accuse reciproche: citando Freud, l’ex-premier Medvedev sottolineava come “nella vita niente costa di più che la malattia e la stupidità”. Nancy Pelosi, speaker del Congresso, da parte sua dichiarava: “Perché il presidente Joe Biden ha dato dell’assassino a Vladimir Putin? Perché lo è”. A seguito di questo battibecco, il presidente Putin ha poi proposto un incontro in videoconferenza con Biden.

Con le sue parole è probabile che il presidente americano abbia voluto alzare il tono per mostrare che, d’ora in poi, il suo atteggiamento verso Mosca sarà altra cosa rispetto a quello tutto sommato amichevole seguito da Trump. D’ora in poi gli Stati Uniti daranno prova di fermezza di fronte alle sfide del Cremlino, intendendo mostrare che non è proprio il caso di costruire un mito intorno a questi autocrati. Vuole anche sottolineare la portata del dissenso tra Stati Uniti e Russia e mettere un freno all’agire di Mosca.

Vi è anche chi sostiene che la forza delle dichiarazioni di Biden serva soprattutto a smentire tutti coloro che, come Trump, lo descrivevano, in particolare sui social, come uomo privo di energia, confuso, addormentato e di salute precaria. Se così fosse, le sue parole su Putin andrebbero lette non solo come un messaggio di risolutezza lanciato alla Russia, ma anche destinate ad uso interno: comunque la si voglia vedere, non bisogna dimenticare che Biden ha fatto delle promesse elettorali e nemmeno si può pensare che egli sia uno sprovveduto.

Tra i due Paesi il contenzioso è di lunga durata e si estende dalla Libia all’Ucraina, comprendendo anche la faccenda del gasdotto North Stream II. Nessuno oggi in Russia parla più di comunismo, ma agli occhi di Biden il paese resta sempre pur sempre un’autocrazia.

Il presidente americano sa bene che il mondo è cambiato, come sa che nello scacchiere internazionale, nonostante le delicate questioni aperte fra le due nazioni, la Russia è oggi un interlocutore di minor peso: non avendo una reale forza economica, il paese avrà seri problemi a realizzare i grandi disegni di Putin.

Se il Pentagono e i consiglieri della Casa Bianca da diversi anni puntano il dito contro le “nazioni revisioniste” e se la Russia di Putin vi è stata inclusa, le problematiche tra i due paesi potranno, forse, non essere risolte del tutto, ma quantomeno discusse a livello di trattativa bilaterale. Questo scambio di invettive, per chi sa leggere la politica, potrebbe essere paradossalmente preludio ad un incontro tra i due Presidenti.

Se a tutti gli effetti Mosca ha assunto un peso minore – tanto che Obama l’aveva declassata a potenza regionale – per gli americani la Russia è oggi vista più come un fastidio che come un’effettiva minaccia. Ben altro discorso vale per la Cina di Xi Jinping.

Una visita in Giappone e Corea del Sud:   A metà marzo, e a brevissima distanza da questo battibecco, il Segretario di Stato americano Anthony Blinken, insieme al Segretario alla Difesa Austin, ha compiuto la prima visita ufficiale all’estero recandosi in Giappone e in Corea del Sud. Non è un caso sia stata fatta proprio presso gli alleati in Oriente.

Per gli Stati Uniti si è trattato di un modo per mostrare la vicinanza a questi due paesi e dell’intenzione di volersi appoggiare a loro per  sottolineare la loro presenza nello scacchiere asiatico e lanciare un avviso alla Cina e alla Corea del Nord sull’importanza che il nuovo presidente attribuisce alla stabilità della regione.

Insieme al Giappone, gli Stati Uniti cercheranno di sviluppare e consolidare i rapporti con paesi quali l’India, il Vietnam, le Filippine e l’Australia, intimoriti tutti dall’ombra che la Cina sta proiettando sulla regione. Cruciali anche i rapporti con la Corea del Sud, nella quale gli americani mantengono una presenza militare di circa 30 mila uomini. Gli Stati Uniti vogliono rassicurare i loro alleati sottolineando la volontà di rimanere nell’area e di non volerla abbandonare. Si tratta di offrire una garanzia sulla continuità della loro presenza.

Di fronte alla sfida posta da Hong Kong e soprattutto quella sul futuro di Taiwan, Washington intende far sentire il proprio peso e marcare la presenza nell’area del Pacifico. È dunque per questo motivo che sta consolidando l’alleanza con il Giappone e sottolineando la  vicinanza alla Corea del Sud. Questa partita sull’egemonia nel Pacifico mette in gioco il domani della potenza americana.

L’incontro di AnchorageNella giornata del 18 marzo il Segretario di Stato Blinken si è incontrato ad Anchorage, in Alaska, con l’omologo cinese Wan Yi per quello che sarebbe risultato l’appuntamento diplomatico del momento. Si è trattato di un primo incontro che, dato il livello del contenzioso delle due nazioni, non è stato certo privo di importanza e, certamente, possibile preludio a un incontro tra i presidenti Biden e Xi Jinping.

In un’atmosfera a dir poco gelida, le due delegazioni si sono sedute l’una di fronte all’altra. Da parte americana è stato subito reso chiaro come il nuovo presidente stia riconfigurando l’azione internazionale degli Stati Uniti a seguito dei 4 anni di Trump. L’osservatore ha potuto subito notare un tono deciso ed un’insolita fermezza di propositi. Il tono dell’incontro è risultato sin dall’inizio franco, scarno, aggressivo e privo di retorica. Alle accuse americane di destabilizzazione e di praticare politiche economiche scorrette hanno fatto seguito risposte altrettanto piccate da parte dei cinesi, a cominciare dalla frase: “non è così che si ricevono gli ospiti”. Insistendo su quel grande ringiovanimento nazionale inaugurato dal presidente Xi Jinping, i rappresentanti cinesi hanno poi ribattuto che il paese non mollerà nulla di fronte alle pretese americane e che “gli Stati Uniti non possiedono le qualifiche necessarie per rivolgersi alla Cina da una posizione di forza”.

Tra queste due nazioni il contenzioso è ampio e i loro interessi nell’area del Pacifico sono a tutti gli effetti divergenti. Gli Stati Uniti non hanno perduto tempo nel denunciare il comportamento aggressivo ed autoritario di Pechino come un attacco alla stabilità della regione nella quale hanno cospicui interessi da tutelare e non poche posizioni da difendere. Questa sfida va ben oltre le sole questioni commerciali e riguarda il rispetto della libertà e dei diritti umani, lo sviluppo tecnologico, la presenza armata e gli equilibri strategici.

Blinken ha accusato Pechino di “minare la stabilità mondiale”, denunciando la repressione degli Uiguri, la stretta su Hong Kong, le tensioni su Taiwan, i cyber attacchi, la militarizzazione del Mare Cinese Meridionale ed infine la coercizione economica a danno gli alleati.

Yang Jiechi, il più alto responsabile del Partito Comunista cinese per le questioni diplomatiche, ha replicato contestando a Washington di usare la propria potenza militare e la supremazia finanziaria per opprimere altri paesi “abusando della nozione di sicurezza nazionale per ostacolare i normali scambi commerciali ed incitare gli attacchi contro Pechino”. Ha poi ribaltato le accuse sui diritti umani, denunciando come la situazione in America non sia certo esemplare, con gli afroamericani che vengono discriminati e “massacrati”. Sono state anche minacciate “azioni decise” ed appropriate contro “l’ingerenza americana”, invitati gli Stati Uniti ad abbandonare la mentalità “da guerra fredda” oltre che un atteggiamento di contrapposizione che non può che recare danno a loro stessi. “Non vogliamo un conflitto”, ha ribattuto Blinken, spiegando che Washington non è contraria a una “concorrenza dura”.

Con la stessa franchezza le due delegazioni hanno affrontato il tema degli attacchi informatici che si è concluso con uno scambio di accuse reciproche e che ha visto i cinesi sottolineare come gli Stati Uniti siano i primi al mondo per capacità di lanciarli essendo in possesso di tutte le tecnologie necessarie per portarli a termine.

La delegazione americana ha quindi accusato la controparte di aver violato il protocollo dei due minuti per le dichiarazioni di apertura: “La delegazione cinese sembra essere arrivata con l’intento di esibirsi, concentrandosi sulla teatralità e drammaturgia pubblica piuttosto che sulla sostanza”, ha commentato un alto dirigente americano, suggerendo che questo comportamento fosse volto a riscuotere il consenso del pubblico di casa. Anche questa volta gli ospiti hanno ribaltato le accuse.

Il presidente Biden si è detto “orgoglioso” del suo Segretario di Stato.

L’incontro di Anchorage si è svolto in gran parte a porte chiuse e ben pochi si sarebbero aspettati attacchi così decisi. Al termine delle sedute il diverbio si è prolungato anche di fronte alla stampa: tra accuse e contro accuse, la conferenza ha posto le basi per quelli che saranno i conflitti di domani.

A differenza di ciò che è avvenuto con Putin, la diplomazia americana ha evitato di chiamare direttamente in causa il presidente cinese e se è vero che ai suoi ordini Pechino ha superato la Russia come superpotenza per influenza globale, forza militare, vendita di armi e potere economico, è altamente probabile che il presidente Biden avrà presto un incontro con il suo omologo cinese. Dalla Corea all’Iran (fruitore di aiuti cinesi) passando per Taiwan, Hong Kong, India, Australia, e gli isolotti contesi nel Mar della Cina meridionale, troppe sono le questioni aperte e troppo importanti per non essere affrontate da Washington.

Se è vero che in passato gli Stati Uniti con la loro flotta e la loro potenza militare controllavano l’area del Pacifico, oggi con l’emergere della Cina come potenza economica, politica, tecnologica e, sempre di più, anche militare e navale, essi si trovano ad affrontare una sfida che intendono arginare. Tra i due Paesi questa nascente rivalità è destinata a crescere e probabilmente anche ad inasprirsi.

Se per gli Stati Uniti la Cina sta assumendo un atteggiamento imperialista riguardo il Mare della Cina, per Pechino si tratta invece di difendersi in un’area che possa consentire di rispondere ad eventuali minacce americane. Una cosa però resta certa: per via della loro forza e della loro importanza, queste due nazioni non possono permettersi una rottura completa. Sono troppo potenti ed il dialogo tra loro già oggi è troppo importante per non essere affrontato. Si tratta non solo di misurarsi con le sfide ed i problemi che porterà questo nuovo secolo, ma anche di gestire le difficoltà, controllare le tensioni ed assicurarsi che la regione non precipiti nell’instabilità.

Per americani e cinesi risulterà indispensabile mantenere il controllo della situazione ed assicurarsi che nulla possa sfuggir loro di mano. Nei loro rapporti vi sono troppi aspetti che li indurranno a cooperare come quelli del degrado ambientale, delle conseguenze dei mutamenti del clima, del terrorismo ed eventuali future pandemie. Vi è anche il problema della Corea del Nord. Evitare contrasti non sarà possibile ed è proprio per questo motivo che diventerà impellente saper gestire le differenze in maniera appropriata e con le dovute cautele.

Forti dell’importanza e dell’attrazione dei loro princìpi, che la Cina non è in grado di esprimere, gli Stati Uniti vogliono sottolineare e rendere chiaro a tutti di essere una democrazia e di avere a cuore la libertà e la questione dei diritti umani. Non avendo nulla da temere su questo fronte, gli americani lo evidenzieranno sempre come una loro caratteristica con la quale Pechino non può competere.

Non manca d’interesse la presa di posizione della stampa cinese nel commentare l’evento. Non viene menzionato il tono aggressivo dell’incontro, gli Stati Uniti sono descritti come condiscendenti con l’aggiunta che dovrebbero rinunciare ad interferire nelle faccende altrui ed apprendere a gestire le differenze: gli americani non riflettono l’opinione internazionale e hanno gravi lacune riguardo le questioni razziali e di discriminazione che non li pongono nella posizione di dare lezioni alla Cina.

Da occidentali non ci è difficile intendere le ragioni degli Stati Uniti. Riguardo gli atteggiamenti della Cina, si può restare perplessi. A parte la normale rivalità tra due grandi potenze, sarebbe forse il caso di ricordare che per i cinesi vi è sullo sfondo anche la memoria collettiva di due secoli di umiliazioni, saccheggi, concessioni e smembramento dell’impero, fattori questi che hanno tutti contribuito a condizionare il loro punto di vista.

Il sistema organizzativo cinese va poi considerato con realismo, così come bisogna tenere a mente la realtà del paese e la sua cultura. La vastità della popolazione e l’arretratezza di molte zone non permettono al regime di andare per il sottile. Partendo da questo punto di vista, non stupisce del tutto che per il regime sia necessario negare libertà e aperture e mostrarsi chiuso a qualsiasi concessione nei confronti di Hong Kong. Per Pechino, come per Mosca, in più di un ambiente è diffusa l’impressione che ad essere in crisi sia la stessa idea di democrazia.

Se i cinesi pensano che le dichiarazioni americane in favore della democrazia e dei diritti umani siano retorica e un tentativo di ingerenza – il cui scopo ultimo potrebbe essere un cambiamento di regime – tra i due paesi restano essenziali i rapporti nel settore economico e finanziario.

Considerazioni finali:  Con l’arrivo di Biden alla Casa Bianca nel gennaio di quest’anno, si comincia ad assistere all’inizio di un cambiamento riguardo la politica estera, l’economia e la lotta alla pandemia, al punto che i suoi quattro anni di presidenza contribuiranno a cambiare la situazione interna degli Stati Uniti. Per l’estero molto dipenderà dalla qualità dei rapporti che riuscirà a stabilire con Pechino e con Mosca e dagli incontri che dovrà presto avere con il presidente russo Putin ed il suo omologo cinese Xi Jinping.

Tutto ciò che abbiamo appena descritto non è che il preludio alla preparazione di questi incontri. Il presidente Biden, per via degli otto anni passati come vice di Obama e della lunga carriera che lo ha anche portato fino al Comitato Affari Esteri del Senato, ha piena dimestichezza sia con le persone che con i centri di potere ed in questo momento sta mandando segnali forti. Le sue iniziative, come già notato, stanno anche aprendo la strada ad una nuova stagione nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa, all’insegna di una maggiore unità di intenti.

Come prevedibile, è giunta poi la notizia che Biden ha invitato Putin e Xi Jinping ad un incontro virtuale da tenersi il giorno delle celebrazioni per il pianeta Terra. Vedo questa data come simbolica: non marca soltanto il ritorno degli Stati Uniti nel trattato di Parigi, ma indica anche un settore nel quale i tre paesi, rivali in tante cose, possono trovare modo di unire i loro sforzi e collaborare a vantaggio dell’intera comunità internazionale.

La Casa Bianca ha indubbiamente capito come i cinesi stiano preparando il loro avvenire e ha sottolineato di conseguenza che gli Stati Uniti non sono alla ricerca di un conflitto con Pechino. Avvertono però che le democrazie devono muoversi congiuntamente ed operare insieme affinché la Cina impari a rispettare le regole. “Ogni Capo di Stato – ha sottolineato Biden – ha il dovere di rappresentare i valori del proprio Paese, e noi lo faremo. I cinesi non sono sciocchi e questo lo capiscono”. “Che la Cina intenda crescere va bene e nessuno desidera criticarne gli obbiettivi. Ma a crescere – ha evidenziato il presidente americano – saranno anche gli Stati Uniti”.

Ad Anchorage si è stati testimoni del primo incontro ufficiale tra le due diplomazie. Il clima glaciale che ha permeato la conferenza non ha fatto che confermare il fossato che separa le due nazioni, oggi in pieno confronto. Questo non deve stupire, perché prima di ogni serio negoziato le parti tendono ad irrigidire le loro posizioni.

Gli Stati Uniti hanno voluto subito mostrare di voler dare la più grande importanza ai temi della libertà, della democrazia e dei diritti umani. Innalzare questa bandiera rende loro più facile lanciare un richiamo ad altri paesi e mettere un freno all’ascesa della Cina, marcando un territorio poco battuto e sul quale possono vantare un indiscusso vantaggio.

Così facendo hanno ripreso argomenti che per Trump non erano affatto di primaria importanza e ai quali l’ex-presidente non si curava di dare la precedenza. Si tratta di vedere adesso fino a che punto Washington riuscirà a sfruttare tali argomenti: i diritti umani sono visti come un richiamo per tutti quei paesi vicini dell’area del Pacifico che temono di venire ridotti dalla Cina al rango di vassalli.

I cinesi, dal canto loro, si attendono d’ora in poi dei risultati all’altezza delle ambizioni mostrate dal loro presidente: non è infatti per non ottenere nulla che gli hanno concesso di restare al potere a vita. All’epoca di Mao la sicurezza della Cina dipendeva dalla sua capacità di tenere sotto controllo e difendere la terraferma. La situazione è oggi cambiata e gli scopi di Pechino si sono allargati, così come si è allargato il perimetro da difendere.

Anchorage riflette da un lato la profonda inquietudine degli Stati Uniti di fronte all’emergere e al graduale affermarsi della presenza di Pechino sulla scena mondiale e, dall’altro, la posizione e le crescenti ambizioni internazionali della Cina e del suo presidente. Le due delegazioni si sono dette di tutto, facendo emergere disaccordi spesso inconciliabili. Per gli Stati Uniti, quella cinese è la più grande sfida da affrontare in questo secolo.

Agli alleati, Biden ha lasciato intendere che è necessario essere sulla stessa lunghezza d’onda. In gioco infatti non è soltanto il futuro della democrazia, ma anche il sapersi adattare alle sfide di domani. In quanto agli avversari russi e cinesi, sarà inevitabile agire per conservare un equilibrio tra gli interessi delle tre grandi potenze.

Al momento i rapporti tra i tre Paesi non cambiano e fin tanto che i loro leader non si incontreranno di persona sarà difficile capire l’evoluzione di ogni questione internazionale di rilievo. Ciò è particolarmente valido per le discussioni sul disarmo nucleare rispetto alle quali ormai sarà necessario coinvolgere anche la Cina. Siamo nell’Era Atomica e per chi di politica estera conosce qualcosa, resta evidente che per capire l’andamento delle cose rimane essenziale guardare allo stato dei rapporti tra Stati Uniti e Russia e Stati Uniti e Cina.

In quanto all’Europa, non si può che constatarne l’assenza e un desolante quadro di litigi da cortile.

Edoardo Almagià