La guerra dei vaccini – di Domenico Galbiati

La guerra dei vaccini – di Domenico Galbiati

La discussione animata attorno alla campagna di vaccinazione, la voglia matta di buttarla strumentalmente in politica  ad ogni piè sospinto, soprattutto la disputa che, qua e là, affiora  sulla eventuale obbligatorietà o meno del vaccino anti-Covid funge un po’ da cartina di tornasole e suscita alcune domande, che vanno oltre la questione in sè e gettano piuttosto qualche sprazzo di luce su alcuni caratteri di fondo della nostra convivenza civile.

Anzitutto, quando la società era più semplice e più ordinata,  determinati processi trovavano soluzione  e venivano più facilmente governati, ad esempio, attraverso una dialettica tra istituzioni e corpi sociali di varia natura, in ognuno dei quali i singoli soggetti che vi si riferivano, trovavano un punto d’ approdo rassicurante che concorreva a definire il profilo  della loro identità professionale e personale e complessivamente uniformava i loro comportamenti, secondo un indirizzo comune convintamente assunto.

La cosiddetta “disintermediazione” che, per varie ragioni, ha preso il sopravvento, l’appannamento o addirittura il venir meno dei “corpi intermedi” determina oggi una condizione tale per cui il momento  di ”composizione del conflitto”, lo spazio in cui le contraddizioni, che attraversano tutti i giorni la vita delle nostre collettività, trovano il loro punto di equilibrio, è, piuttosto, da ricercare nella coscienza personale di ognuno.

Un esempio, in tal senso, è offerto  anche dai diversi medici, che, anziché uniformarsi all’indicazione del loro Ordine Professionale, non intendono vaccinarsi e finiscono per accreditare le tesi dei “no-vax”; cosa impensabile, se non per l’isolata posizione di qualche mosca bianca, fino ad anni del tutto recenti.

Così per quanto concerne, a quanto pare, numerosi operatori sanitari di altre categorie. Nel caso specifico, non è certo incoraggiante la comparsa di simili atteggiamenti. Eppure, è indicativa di una condizione generale che oggi rende complessivamente più difficile “governare”, in ogni campo.

Condizione che non va sottovalutata, né per ciò che ne consegue, né per quel “più” di maturità civile che pretende, in carenza della quale , nella complessità del tempo globale, diventa sostanzialmente impossibile guidare l’evoluzione di processi sociali, che sempre più appaiono lasciati a sé stessi, rotolare giù per la china di derive che non siamo in grado di controllare. E la pandemia è un pò il paradigma o una prima, dura, inafferrabile sfida del genere che sperimentiamo sulla nostra pelle.

La tesi, su cui sarà necessario tornare, è sostanzialmente questa: quanto più una società è complessa, tanto più può essere governata solo a prezzo di uno straordinario incremento di maturità civile che consenta, come già accennato, di costruire le necessarie mediazioni, le integrazioni tra istanze differenti ed addirittura contrapposte, nell’interiorità della coscienza di ciascun cittadino, nella sua capacità di assumere una responsabilità personale e consapevole nel contesto civile in cui opera.

Le modalità di  composizione tra le diverse sollecitazioni e le mille suggestioni che incessantemente si accavallano e si sovrappongono le une alle altre, fino ad assediare la vita di tutti i giorni, sono accolte e, dunque, efficaci, solo laddove – per quanto molto spesso, più o meno consapevolmente, allineate al pensiero prevalente del momento, addirittura nelle forme farlocche del “politicamente corretto” – possono essere fatte proprie interiormente, piuttosto che offerte e men che meno imposte da processi di compensazione o di armonizzazione dell’interesse particolare della stessa propria categoria o gruppo di appartenenza in una cornice di interesse generale.

Pare, insomma, che sia andata allegramente smarrita per chissà dove la consapevolezza di un “bene comune”, inteso come quella condizione in cui il bene di ognuno non è mai a detrimento dell’altro, anzi consente di giungere ad un momento virtuoso di reciproco arricchimento.

Non è, per molti aspetti, almeno potenzialmente, questa la condizione in cui ci possiamo riconoscere a fronte del percorso di vaccinazione, che , al di là di una certa retorica, attesta di fatto come davvero nessuno si salvi da solo, bensì sia necessario che si acceda concordemente ad un livello di solidarietà almeno sufficientemente alto da ricomprendere tutti indistintamente?

Per sopportare le sfide che ci presenta, non solo in campo sanitario, un mondo globale, nel quale le interconnessioni si stringono sempre più, tanto da apparire talvolta violente fino ad esplodere in processi improvvisi ed impredicibili, di cosa abbiamo più bisogno?

Sicuramente di configurazioni istituzionali che, sia pure sperimentando soluzioni da maturare faticosamente sul campo, si avviino verso forme di coordinamento, per lo meno in ambiti determinati e circoscritti, che siano di dimensione planetaria, fino a sfiorare progressivamente un impianto di vero e proprio “governo” congiunto di problematiche che, come la pandemia, prescindano da ogni confine.

Forse si tratta di “fantapolitica”, eppure è difficile sottrarsi all’impressione che, per lo meno, il tema sia posto e difficilmente aggirabile, per pochi che siano  gli strumenti concettuali di cui disponiamo in merito.

Eppure, non ci sono architetture istituzionali o soluzioni politiche così ben  congegnate da produrre, quasi automaticamente, effetti strutturali tali da bastare, di per sé, a risolvere le contraddizioni che ci attraversano.

In altri tempi, se la politica riusciva a conciliare le tessere del mosaico sociale rappresentate dalle categorie, dai gruppi o dalle classi interpreti di istanze settoriali, concertando un disegno di interesse generale e di “bene comune”, si riusciva, in definitiva a “governare” il corso degli eventi, cioè ad orientarli secondo un indirizzo prestabilito in termini di obiettivi e di valori.

Oggi tutto questo continua ad essere vero, ma ad una condizione: che si raggiunga il luogo della mediazione possibile nella sua radice ultima, cioè in quel dato di responsabilità’ intima e personale di cui ognuno si fa carico secondo la capacità della propria coscienza di ospitare il sentimento di appartenenza ad un orizzonte di destino comune.

Insomma, stiamo forse transitano da una democrazia incentrata sulla dialettica dei corpi sociali, ad una democrazia sì dei corpi sociali, ma che non può fare a meno della “persona”, secondo tutta l’intensità della ricchezza interiore che la accompagna.

Questo esige un orientamento più lucido ed un impegno più consapevole ad una forza politica che intende rifarsi al personalismo cristiano.

In ultima analisi, dobbiamo chiederci se questa sorta di “atomizzazione” o di stato liquido di una coscienza collettiva un tempo più organica e coesa sia davvero e soltanto una iattura oppure, almeno per certi aspetti, una provocazione utile e paradigmatica che attende una risposta per rivelare la potenziale ricchezza che ha in sé, per quanto ora non la si intenda ancora chiaramente.

Cosa suggerisce, ad esempio, questa condizione nuova, in fondo – si potrebbe dire – ispirata, per quanto ancora confusamente, ad una sorta di disincanto della coscienza personale, sul fronte della costruzione di quella nuova forma di democrazia, che, dopo quella degli antichi e dei moderni, sia adatta al tempo post-moderno?

Sapendo come quest’ultimo – per quanto tuttora così difficile da caratterizzare, se non in  virtù del prefisso – ad ogni modo rifiuti e vada oltre quella razionalità meccanica e quella sistematica organicità che ha rappresentato la più alta aspirazione della modernità, non a caso approdata allo stereotipo delle ideologie ottocentesche.

Domenico Galbiati