Quale ruolo per lo Stato in economia oggi? – di Vera Negri Zamagni

Quale ruolo per lo Stato in economia oggi? – di Vera Negri Zamagni

L’entrata dello Stato italiano attraverso la Cassa depositi e prestiti (CDP) nell’Ilva di Taranto, che verrà controllata da Invitalia, la statalizzazione di Alitalia le cui azioni sono di proprietà del MEF, l’imminente presa in carico di Autostrade per l’Italia, sempre attraverso CDP, ripropongono una riflessione sul ruolo dello Stato oggi nell’economia, non solo in Italia.

Prima di entrare in argomento, sarà utile una breve panoramica storica. Come risultato di un esteso salvataggio di banche e imprese dai guasti provocati dalla crisi del 1929 (che resta la più grave affrontata dal mondo anche confrontata con quella odierna provocata dal Covid-19), l’Italia aveva ereditato dal fascismo un grande complesso di industrie di Stato collocate nella holding IRI (1933) e un prototipo di banca pubblica cui molte altre poi si ispirarono, l’IMI (1931). Nel dopoguerra, poiché anche molti altri paesi europei ritennero di operare vaste nazionalizzazioni, anche se per motivi diversi, i governi della nuova democrazia italiana non solo non smantellarono IRI ed IMI, ma proseguirono sulla strada della creazione di imprese pubbliche con ENI (1953), EFIM (1962), ENEL (1962) e altre minori, e della creazione di banche pubbliche, in primis Mediobanca (1946). Non va poi dimenticato che l’esistenza dell’Unione Sovietica, la cui economia era interamente nelle mani dello Stato, rafforzava l’idea che la presenza dello Stato “imprenditore” fosse positiva.

Sarebbe troppo lungo discutere qui dei meriti e demeriti di questa stagione delle imprese pubbliche che non ebbero tutte vicende analoghe, né in Italia né all’estero, ma di sicuro non impedirono la ricostruzione dell’Europa dopo la fine della II guerra e nemmeno i cosiddetti “miracoli economici”. Sta di fatto che, a partire dagli anni 1980 e ancor più dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si diffuse la convinzione che mantenere una tale presenza di imprese di proprietà pubblica non fosse né necessario e nemmeno auspicabile. L’economia occidentale si era sviluppata attraverso una vivace imprenditoria privata, che veniva anchilosata dalla forte presenza dello Stato. Iniziarono dunque le privatizzazioni, alcune delle quali terminate con successo, altre invece in modi altamente insoddisfacenti, a causa di gestioni privatistiche inadeguate e/o predatorie. Ma quel che è peggio è che le privatizzazioni si accompagnarono all’onda lunga proveniente dagli Stati Uniti di un ritiro dello Stato non solo dalla gestione di imprese, ma dalla gestione dell’economia tout court. Il mercato veniva visto come un meccanismo capace di auto-governarsi al meglio, se non veniva “interferito” da improvvidi interventi dello Stato che doveva limitarsi alla gestione della moneta e del fisco, e, se mai, di una legislazione anti-trust, oltre del Welfare state in Europa.

Le numerose crisi che si inanellarono nel mondo, proprio a partire dagli anni 1980 (e ben descritte nel volume di P. Krugman, Il ritorno dell’economia della depressione e la crisi del 2008, 2009), hanno dimostrato sulla pelle dei cittadini di tutto il mondo che i mercati non si autoregolano (peraltro, l’aveva già detto Keynes negli anni 1930!) e che quindi il primo irrinunciabile ruolo a cui uno Stato non può derogare è quello della regolazione dei mercati in modi capaci di garantire equità. Oggi ce n’è un bisogno estremo.

Il primo mercato da ri-regolare è quello finanziario che lavora su schemi altamente speculativi che non fanno che destabilizzare il mondo. In Europa, la Banca Centrale Europea (BCE) con Mario Draghi è stata in prima linea nel ri-regolamentare, con alcune eccessive rigidità (per esempio, non diversificando fra grandi e piccole banche) e con un potere limitato, perché non esiste un forum mondiale dove discutere di una regolazione comune. Ma molto c’è ancora da fare.

La seconda area di regolazione necessaria è quella della grandi imprese, specialmente le piattaforme High Tech che si stanno impadronendo di una fetta della ricchezza mondiale assolutamente sproporzionata e di una quantità di informazioni tali da attentare alla libertà delle persone. Finalmente, si sta vedendo una levata di scudi sia negli Stati Uniti, sia nell’Unione Europea, ma siamo solo agli inizi.

Una terza area è quella delle imprese diverse da quelle capitalistiche, a cui occorre offrire una legislazione capace di farle fiorire, un obiettivo altamente auspicabile viste le loro finalità più volte al bene comune che all’arricchimento individuale.

Una quarta area è quella dell’innovazione tecnologica, i cui benefici non si possono dare per scontati, salvo poi scoprirne i malefici quando è troppo tardi.

Ma oggi regolare i mercati non è sufficiente, a fronte di sfide che mai nel passato il mondo aveva affrontato. Oggi lo Stato deve intervenire molto urgentemente anche su altri fronti: la crisi climatica, la salute attaccata da inquinamento ed epidemie, le migrazioni frutto di povertà ed oppressione e i profondi squilibri di potere che si sono determinati a livello mondiale a causa dell’emergere di imprese “troppo” grandi e di stati “troppo” grandi. Su tutti questi fronti c’è una forte necessità di coordinamento a livello di grandi aree e di mondo intero che spingono nella direzione di una energica presenza degli stati attraverso negoziati e progetti condivisi, come quelli che si stanno oggi vedendo all’opera.

Il Green New Deal europeo, che si propone di tagliare le emissioni nocive del 55% entro il 2030, e il collegato New Generation EU sono begli esempi di concertazione che implicano un’assunzione di responsabilità degli Stati coinvolti nella programmazione di legislazione opportuna e di interventi di investimento, anche pubblico. È per questa ragione che oggi uno Stato si deve dotare di “cabine di regia”, la cui composizione può essere discussa, ma la cui necessità è irrinunciabile se si vuole che gli obiettivi vengano raggiunti in tempi accettabili. Occorrerà poi anche riformare la burocrazia pubblica perché si adegui a lavorare per obiettivi e non per mere procedure e non si dovrà più ricorrere a strutture straordinarie per realizzare gli obiettivi che uno Stato si pone. In questo nuovo approccio, dunque, lo Stato deve darsi obiettivi strategici, orientando il mercato in tali direzioni e non si può più limitare a gestire al meglio il laissez faire.

Se quanto detto si applica in generale al ruolo dello Stato oggi, soprattutto in Europa, nel caso italiano c’è un problema in più da affrontare. Per ragioni che non ho qui il tempo di discutere, l’Italia si ritrova con una presenza di piccole e medie imprese (PMI) incomparabile con quella di qualunque altro paese avanzato ed è quindi più vulnerabile all’attacco esterno di imprese grandi e/o stati grandi. Trovo quindi opportuno che l’Italia sviluppi una legislazione di blocco di acquisizioni esterne puramente predatorie, si doti di un fondo strategico che abbia l’obiettivo di evitare il fallimento delle poche grandi imprese che l’Italia oggi ha e, al tempo stesso, faccia crescere quelle medie imprese che hanno una potenzialità di ingrandimento, soprattutto in quei settori collegati ai nuovi obiettivi che ci si propone di raggiungere.

La CDP sembra avere iniziato a svolgere questo ruolo, che trovo accettabile sul medio periodo, a due condizioni: la prima è che si facciano scelte mirate ad una sostenibilità nel tempo dell’impresa presa in carico e non ad un suo mero salvataggio e la seconda è che il supporto fornito venga gestito con obiettivi di efficienza ed efficacia e non di clientelismo. Il contesto internazionale è così competitivo che costruire oggi “carrozzoni” di imprese pubbliche inefficienti non farebbe che peggiorare lo stato di salute della nostra economia già in gravi difficoltà.

Quello sopra tratteggiato è dunque un nuovo approccio al ruolo dello Stato: da gestore di imprese pubbliche in una prima fase e poi da osservatore esterno di mercati che si supponevano capaci di autoregolarsi, lo Stato oggi deve riprendersi il ruolo di dettare regole di funzionamento dei mercati che non producano patenti discriminazioni e di assicurare ai cittadini le migliori condizioni di vita, attraverso una presenza strategica di orientamento del sistema economico verso obiettivi di superamento dei nodi irrisolti o aggravati dal precedente liberismo. Questi ruoli implicano una trasformazione regolativa e la promozione di investimenti pubblici e privati orientati nel senso voluto.

Il business as usual deve essere accantonato non solo dagli imprenditori e dalla cittadinanza, ma soprattutto dalle autorità pubbliche. Una nuova era di creatività non si apre soltanto per la tecnologia, ma anche per la politica e la società e occorre essere consapevoli che le innovazioni politiche e sociali non sono meno importanti di quelle tecnologiche.

Vera Negri Zamagni