I trecento tecnici per il Recovery Fund … – di Domenico Galbiati

I trecento tecnici per il Recovery Fund … – di Domenico Galbiati

Erano trecento  i giovani patrioti di Carlo Pisacane. Tanti quanti i tecnici che il Governo penserebbe di arruolare per selezionare i progetti da finanziare con i miliardi del Recovery Fund. Speriamo finisca meglio.

Pisacane ed i suoi amici si sono comunque coperti di gloria. Non di contumelie, come succederebbe alla tre centurie di Conte ove fallissero, se non altro intralciandosi l’un l’altro nella calca di una “movida” francamente esagerata rispetto alla funzione che, pare, verrebbe loro assegnata.

Intanto come verrebbero arruolati? Con quali regole di ingaggio ? Comandati da chi ? Il Governo ha fatto bene a tirar dritto per la sua strada, affrontando l’emergenza sanitaria con i DPCM. Non ha recato alcun vulnus alla democrazia. Se una debolezza gli si può rimproverare concerne le smagliature, anzi qualche cedimento cui si è piegato la scorsa estate, sotto la pressione congiunta di una opposizione di irresponsabili e di una classe dirigente regionale mediamente senza polso, a prescindere dall’appartenenza politica.

Pressione congiunta e “concertata”, dato che spesso l’atteggiamento di alcune Regioni nei confronti del Governo centrale – a parte l’incapacità di tenere il punto delle pur comprensibili rivendicazioni degli interessi locali più colpiti – talvolta è apparso diretto a quel tanto di frattura del fronte interno che faceva comodo ad un’opposizione che non si è data pena di non scaricare le proprie frustrazioni politiche contro quella dialettica tra istituzioni, che dovrebbe prescindere del tutto da interessi di bottega elettorale.

Ora il giochino pare ripetersi. C’è chi evoca il rischio di una sindrome collettiva di astinenza da sci; chi teme la deprivazione delle abbuffate familiari di panettone natalizio e di cotechino e lenticchie la settimana dopo. E non manca chi scomoda Guido Gozzano – “E il campanile scocca la mezzanotte santa”  – per invocare rispetto per Gesù Bambino, pur di sgomitare e seminare dubbi, distinguo e perplessità nei confronti dell’azione del Governo, che, purtroppo, non si fermano lì,  ma diventano motivo di insicurezza e precarietà sofferta per la vita delle persone e dei loro contesti familiari.

Ora – se si può dare un consiglio a Conte – eviti di svicolare per la tangente, ricorrendo a questa pletora di tecnici. Non spetta ai manager governare il Paese. Tocca alla politica. Tanto più, quando è in gioco una prospettiva di svolta e di sviluppo destinata a proiettarsi su un domani di medio-lungo periodo.

E’ stato osservato che stiamo impegnando risorse che formalmente giungono dall’Europa, ma sostanzialmente sono prestiti che ci vengono rilasciati dalle generazioni future con l’impegno che noi si sappia disegnare un mondo che, quando giungeranno qui, possano trovare almeno  accettabile. Del resto, la forza di un Governo non sta solo nei numeri, ma pure, in particolare nei momenti avversi, in quella consapevolezza di sé e della propria responsabilità che ne attesta la legittimità.

Conte vada, dunque, in Parlamento ed anziché temere le insidie dell’opposizione, la sfidi a viso aperto. Ed altrettanto faccia pure nei confronti delle serpeggianti disarmonie della sua maggioranza.

Dal Parlamento e – non dal balconcino di Palazzo Chigi da cui il suo attuale Ministro degli Esteri annunciò la sconfitta della povertà, né da nessun altro balcone, neppure da un salotto televisivo, ma fisicamente lì, dal banco del Governo di fronte all’emiciclo delle aule parlamentari – attraverso il Parlamento, dica al Paese dove lo vuole condurre. Dia conto dell’ “ordito” che rappresenta l’impianto che dà forza e spessore ad ogni tessuto. Dica francamente quali poche, grandi linee progettuali intenda proporre, che siano dirette a guidare la “trasformazione” di cui l’Italia ha bisogno, quel cambiamento di fondo che – al di là del classico riformismo – sappia evocare nel Paese un sentimento di fiducia e di speranza, un costume nuovo di responsabilità.

La trama concettualmente viene poi e la si può intessere con fiducia trasversalmente all’ordito se questo è robusto. Ma è pur sempre quest’ultimo a garantire la tenuta della tela; la capacità di proiettare il disegno che si concepisce oggi, entro una visione che delinei l’orizzonte di senso di un domani credibile.

Riscopra – anche a fronte dei suoi – quella franchezza schietta e rude di cui, con sorpresa di molti, si dimostrò capace il 20 agosto dello scorso anno, quando, qualunque sia il giudizio su quel che ne è seguito, seppe dare una svolta – questo gli va riconosciuto – alla vita di un Paese che si andava avvitando, giorno dopo giorno, in una spirale nefasta di rabbia e di procurato rancore.

Domenico Galbiati