Curare il capitale umano – di Vincenzo Mannino

Curare il capitale umano – di Vincenzo Mannino
È impressionante la prova da sforzo innaturale alla quale stiamo sottoponendo la scuola a causa del Covid-19. Dalle remote origini la scuola è un gruppo di discenti (bambini, ragazzi, giovani, talora adulti, che noi chiamiamo classe), riuniti tra loro e con un insegnante in un luogo stabile (che chiamiamo aula) a lavorare insieme all’apprendimento di conoscenze, metodi, relazioni.
La DAD chiede alla scuola di funzionare senza questi elementi costitutivi, sperimentando una modalità, che non è stata né progettata né collaudata, almeno non in modo generale (perché esperimenti e riflessioni, per esempio sull’insegnamento capovolto, ci sono stati). Intanto la DAD viene messa in opera con un eroico bricolage, usando quello che c’è (di abilità e di dispositivi, a scuola e a casa). Sotto sforzo emergono i punti forti e i punti deboli. Di questi ultimi si parla fin troppo e alcuni aspetti li riprenderò dopo.
I punti forti sono che gli studenti conoscono il valore delle relazioni tra loro e con gli insegnanti, che molti dirigenti scolastici e insegnanti dimostrano una capacità eccellente di improvvisare e di improvvisarsi in modalità non predisposte, che gli uni e gli altri fanno prevalere la disponibilità ad andare avanti, a fare comunque, ad adattarsi. Ci sono vocazioni. Ci sono persone che amano il loro lavoro. Da questi punti di forza occorre ripartire. Si, perché nelle crisi il traguardo non è tornare alla situazione di ieri, che perfetta non era. La scossa della crisi spinge a nuovi traguardi, rende impossibile rinviarli.
Oggi ancora più di prima sono convinto che agire sulla scuola, e sul diritto allo studio in un’accezione più ampia di quella originaria, sia una conditio sine qua non, per rimettere in sviluppo l’Italia (e come si fa quando le questioni che si candidano al titolo di conditio sine qua non, sono troppe, per occuparsi di tutte? Semplice: qui comincia la politica). Quando si chiede perché l’economia italiana è ferma o quasi praticamente da trent’anni, da prima cioè delle crisi storiche di questo ventennio (quella finanziaria globale e quella sanitaria globale, ma alla fine tutto si abbatte sull’economia reale), la prima o unica risposta riguarda la crescita mancata o esigua (a paragone dei tanti altri paesi) della produttività.
Per fortuna si fa più chiaro che si tratta della produttività totale dei fattori e non solo di quella del lavoro.
Ma se ci fossero altre concause? La butto là: se ci fosse anche la mancata o esigua (sempre comparativamente) crescita di istruzione e formazione? Vediamo.
L’evasione dell’obbligo scolastico, sebbene discendente, è maggiore che nella media UE. Ma l’indicatore più usato un Europa, l’ELET (Early leaving from Education and Training), riguarda l’abbandono scolastico dopo la fine dell’obbligo, tra i 18 e i 24. I nostri che abbandonano sono il 13,5% (in giro per l’Europa più vicini al 10% in linea con gli obiettivi della strategia europea 2020). Non è che interrompano gli studi per andare a lavorare: anche quelli occupati sono meno che altrove. Infatti ci sono i NEET, che tra i 15 e i 29 anni sono il 22,2% da noi e il 12,5% nella media UE.
La rappresentazione che emerge dai rapporti OCSE-PISA è nota. Le persone (tra 25 e 64 anni) con un titolo di studio secondario superiore in Italia sono (nel 2019) il 62,2% della popolazione, contro la media UE del 78,7%. Quelle con un titolo terziario, sempre nella stessa fascia di età, sono il 19,6% contro il 33,2%. I laureati crescono, però: nell’ultimo quinquennio sono aumentati del 2,7%. Non male, ma in media UE sono aumentati del 3,9%.
E’ solo un riepilogo di cose note, e anzi penso che molti lettori abbiano vere competenze in materia.
(Solo incidentalmente, perché meritano un focus dedicato, ricordo due evidenze altrettante note: le donne vanno meglio, il Mezzogiorno va peggio). Questa dinamica esige la stessa attenzione della dinamica della produttività.
Tra le due poi ci saranno delle connessioni.
Tocca a una politica della scuola e del diritto allo studio occuparsene? Una volta il diritto allo studio riguardava chi voleva studiare, ma senza misure dedicate non ne avrebbe avuto i mezzi. Oggi il diritto allo studio deve coinvolgere anche quelli che non sanno quanto gli converrebbe studiare, e che sono scoraggiati, sfiduciati, dissuasi, ingannati da scorciatoie. Ma anche l’asticella della preparazione idonea, e quindi dei mezzi necessari, si è alzata. Infatti bisognerebbe parlare anche di dottorati.
Parlando di diritti e di politica conviene andare ai blocchi di partenza, che, come accade spesso, sono nella Costituzione.
L’art. 33 tratta dell’istruzione (è quello che contiene la nota formula del “senza oneri per lo Stato”). L’art. 34 afferma che la scuola è aperta a tutti, che l’istruzione inferiore è obbligatoria e gratuita, che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”, e infine che la Repubblica “rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.
Accenno due domande. Per le risposte a malapena mi azzardo a indicare in quale direzione, a mio avviso, si potrebbero cercare. Qual è lo stato di attuazione di questa previsione costituzionale? C’è stata certamente una evoluzione normativa. Il nome stesso del Fondo Unico per il Welfare degli studenti e il diritto allo studio, è indicativo. Dopo la riforma del Tit. V della Costituzione del 2001 si sono succeduti diversi interventi normativi sulla differenziata attribuzioni di compiti. Tuttavia gli interventi che attuano il diritto allo studio si muovono nella cornice di una spesa complessiva per l’istruzione, in rapporto al PIL, che è tra le ultime in Europa.
La nostra odierna coscienza civile e sociale, e il suo esercizio nel mondo attuale, si accontentano del “capaci e meritevoli”? Forse si, se l’art.34 si legge dentro l’art. 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana …”.
Dunque capaci non deve essere uno stato di natura, ma anche una condizione da promuovere. Capaci anche si diventa. C’entra la capacitazione di cui parla Amartya Sen. Alla fine di tratta di spendere di più? Anche di spendere meglio, ma non solo. Siamo assordati, in questo paese troppo indebitato, dal coro di coloro che assicurano che nel loro giardino non c’è nulla da togliere e c’è bisogno di aggiungere. Ma così non può essere. Di nuovo tocca alla politica decidere dov’è prioritario investire per il bene comune.
Già da piccoli, nelle prime nozioni di geografia abbiamo appreso che l’Italia, non ricca di risorse naturali (idrocarburi e metalli pregiati esportabili, ora aggiungeremmo terre rare e altro) ha soprattutto una economia di trasformazione.
In altre parole la risorsa più preziosa dell’Italia sono gli italiani, il suo capitale umano. Come è possibile che investire nella sua valorizzazione non sia il primo dei nostri investimenti?
Naturalmente la spesa è quasi sempre indispensabile, ma non basta mai. Se si parla con insegnanti esperti le domande sono altre: come si rimotiva un adolescente? Quali orizzonti gli indichi? A quali futuri lo inviti? Quale composizione delle classi è compatibile con questo lavoro? Come si formano gli insegnanti?
Ci sono problemi di retribuzione, di attrezzature, di edilizia scolastica. Se mettessimo la scuola al primo posto del Recovery Fund? È un investimento a rendimento differito e non tutti gli investimenti potranno essere così.
Certo questo richiede una politica che non abbia solo dipendenza da consenso, ma al tempo stesso eserciti responsabilità, abbia senso dei doveri.
Vincenzo Mannino