Rispondere al Coronavirus con la medicina territoriale

Rispondere al Coronavirus con la medicina territoriale

I problemi connessi all’effettuazione dei tamponi Covid-19 è un serio indicatore per riformare e potenziare le strutture della medicina territoriale in senso lato, e della loro capacità di dialogare con immediatezza con gli altri presidi: ospedali, centri di alta specializzazione e di ricerca.

Le affermazioni di scienziati, esperti, politici, amministratori che denunciavano con innocente candore lo scarso funzionamento della medicina territoriale durante i giorni tragici della pandemia hanno suscitato in tanti stupore nella fase iniziale del Covid-19.

L’incapacità di tenere sotto controllo i contagiati nelle strutture ospedaliere stava diventando un vero dramma, se non si interveniva con rapidità. Non c’era da meravigliarsi per questo squilibrio. Sin dagli inizi degli anni novanta del ‘900 i punti cardini della più grande riforma sanitaria italiana (833/78), riordino del servizio sanitario nazionale, sono stati stravolti o addirittura abrogati. La riforma della sanità pubblica puntava alla tutela della salute dei cittadini come bene universale, imperniata sui tre momenti: prevenzione, cura e riabilitazione. Alcuni solerti mercanti nei primi anni novanta intervennero, sostenendo che ormai si era nella “globalizzazione” ed era necessario costruire aziende con logiche di profitto e di mercato. Il risultato è stato che nel giro di un trentennio non c’è stato profitto né tutela della salute.

Si sono persi circa 300 mila posti letto, 359 reparti chiusi, investimenti diminuiti di 37 miliardi di euro. C’era la garanzia costituzionale dell’accesso alle cure per tutti, oggi invece abbiamo 14 milioni di cittadini che hanno difficoltà a curarsi. Addossando sempre le responsabilità all’Europa è stato smantellato uno dei migliori servizi sanitari al mondo. E demolendo e abbattendo quanto fatto in passato siamo arrivati ad oggi, col ritorno dell’aggressività del Coronavirus che sta colpendo migliaia di italiani in quasi tutte le regioni.

Conseguenza del nuovo stato di cose: ripristino delle misure di emergenza applicate nella prima fase, compresa la prescrizione dell’esecuzione di tamponi su vasta scala, in primis ai soggetti a rischio. E fin qui tutto normale. In concreto però si è constatato che sono necessarie misure repressive per convincere la gente a usare la mascherina. Il problema, nonostante il rischio, si sta superando con l’intervento delle forze dell’ordine. Ciò che invece non è possibile fare agevolmente è l’effettuazione dei tamponi, visto che tuttora ci sono disservizi e ostacoli di vario genere. Eppure si sapeva che ci sarebbe stata la necessità, dopo il periodo estivo, con la ripresa delle attività scolastiche e lavorative, di un controllo serrato per governare la situazione. Niente, tutto come prima.

Le strutture sanitarie territoriali ancora una volta si sono dimostrate insufficienti, al punto da sottoporre i pazienti a notevoli stress per le lunghissime attese per effettuare il tampone. Allora, c’è una soluzione per superare queste gravi difficoltà? Forse c’è. Il servizio sanitario nazionale è costituito da strutture pubbliche, convenzionate, private. Le Regioni e le Asl, venute a conoscenza che i propri presidi non hanno la capacità di fronteggiare alle esigenze del momento, possono autorizzare cliniche convenzionate, laboratori privati e convenzionati, farmacie, parafarmacie, sevizi domiciliari, ambulanze attrezzate (ventilatore polmonare o defibrillatore) a supportare i presidi pubblici.

Se non c’è il massimo coinvolgimento delle strutture territoriali le difficoltà non si supereranno. Fermo restando che nell’immediato futuro dovrà essere dedicata massima attenzione al potenziamento e alla razionalizzazione della medicina territoriale.

Raffaele Reina