Il nuovo anno scolastico e l’educare

Il nuovo anno scolastico e l’educare

Pubblichiamo la prima parte di un intervento del prof Marcello Soprani, dirigente scolastico e pedagogista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dedicato al nuovo anno scolastico

Il nuovo anno scolastico è ormai alle porte e alle consuete considerazioni (miste a buoni propositi) che si esprimono in questa occasione circa il ruolo e l’importanza della scuola per la nostra società e per il futuro delle giovani generazioni, si uniscono l’ansia e la preoccupazione dettate dalla ripresa dopo il lungo periodo di lockdown causato dal Covid-19, una chiusura straordinaria di tutte le scuole di ogni ordine e grado (e delle università) che non si era vista neppure in tempo di guerra!

Gli operatori della scuola, le famiglie, i politici, gli amministratori locali, i responsabili della salute pubblica e gli esperti si interrogano sulla bontà delle misure di prevenzione adottate in relazione alla capacità di impedire o, quanto meno, di limitare la diffusione del virus. La prospettiva di dover richiudere nuovamente le scuole rappresenta infatti per tutti un vero e proprio incubo da scongiurare ad ogni costo.

Nello stesso tempo però quella imprevista e imprevedibile chiusura ha fatto riflettere seriamente e, forse per la prima volta dopo tanti anni, sulla vera importanza di questo dispositivo sociale che chiamiamo sistema scolastico e che, da due secoli a questa parte, ha garantito l’istruzione a centinaia di milioni di cittadini italiani.

Lasciando al momento da parte le considerazioni sulla pur fondamentale questione della Didattica a Distanza e sull’utilizzo delle nuove tecnologie nella e per la didattica (argomento di estremo interesse sul quale ritorneremo sicuramente e volentieri in altra occasione) vorremmo qui approfondire le ragioni di questa “riscoperta” e rivalutazione di un’Istituzione che da diversi decenni pareva essere sempre sotto i riflettori dell’opinione pubblica e della politica più per la sua inefficienza e dispendiosità che per i propri meriti.

Restare per 6 mesi senza la possibilità di garantire ai circa 8 milioni di alunni di frequentare le scuole ha rappresentato invece un segnale importantissimo per tutti coloro che avevano smesso di credere e di investire sulla nostra Scuola come vero motore e volano del futuro del Paese. E non solo per mere considerazioni e necessità di carattere utilitaristico (mi riferisco alla “scuola parcheggio” in cui genitori sempre più indaffarati possano lasciare per il maggior numero di ore possibile i propri pargoli) e neanche per calcoli politico-sindacali che tanto male hanno fatto al mondo scolastico (in questo caso il pensiero va alla scuola considerata come “ammortizzatore sociale” nel quale poter collocare il maggior numero di lavoratori a prescindere da bisogni e competenze). Il vero punto qualificante di cui finalmente tutti hanno avvertito la mancanza è stato quello della Scuola come luogo di crescita, di formazione, di istruzione e, soprattutto, di educazione delle giovani generazioni.

Infatti, positivamente superata dopo gli anni settanta e ottanta del secolo scorso l’annosa controversia tra istruire e educare, ormai tutti i pedagogisti e le persone di scuola, al di là dei propri orientamenti e appartenenze ideologico-valoriali, sono concordi nel ritenere che la Scuola abbia tra i suoi compiti principali quello di educare. Ma questo che a prima vista potrebbe apparire come un felice punto di arrivo e convergenza si rivela ad uno sguardo più attento e profondo un ginepraio da cui proveremo ora a districarci.

Parlare genericamente di educazione infatti, mette d’accordo pensatori e autori molto lontani tra loro e soprattutto dalla concezione educativa cristiana basata sul concetto di Persona Umana basti pensare alla teoria della cosalità educativa di Riccardo Massa o alla prospettiva di educazione come insegnamento per la vita  di Edgar Morin (per citare due autori che traggono ispirazione da presupposti molto differenti da quelli cristiani); d’altro canto oggi si fa un gran parlare di soft skills, di abilità del carattere, di competenze chiave e di cittadinanza, tutti aspetti su cui l’Unione Europea spinge con grande insistenza fin dai primi anni 2000 e rispetto ai quali non si può che concordare decisamente allorquando si prendano in considerazione abilità e competenze quali quelle di: imparare ad imparare, sapere collaborare e lavorare in gruppo, risolvere problemi, aprirsi all’esperienza, essere capaci di pensiero critico e di innovazione…

ma anche in questo caso se volessimo andare un po’ più a fondo rispetto alla seducente superficie ci accorgeremmo che le logiche e le dinamiche che sottostanno ad una tale visione sono per lo più di carattere economico. Non per niente il Consiglio Europeo di Lisbona nel marzo 2000 si era dato quale obiettivo per il decennio quello di far sì che l’Unione Europea potesse diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo. Penso che ciascuno possa verificare se e in quale misura questo obiettivo sia stato raggiunto, a noi qui interessa però ricordare il fatto che già Giovanni Paolo II prima e Benedetto XVI poi avevano fatto sentire forte la loro voce nel sottolineare come le istituzioni di Bruxelles non avessero in alcun modo voluto riconoscere le radici cristiane dell’Europa. Questo ci porta quindi alla conclusione che molti parlano di educazione ma, come spesso accade per le cose umane, lo fanno partendo da prospettive molto diverse ed avendo in mente concezioni dell’uomo, della società e della scuola assai differenti da quella cristianamente ispirata.

Nella seconda parte dell’intervento proveremo quindi a chiarire in che senso la Scuola debba e possa educare i bambini e i ragazzi da un punto di vista cristiano senza con questo scadere in una dimensione meramente confessionale, ma riconoscendo e valorizzando appieno i principi costituzionali che sono alla base del nostro sistema scolastico.

Marcello Soprani