Verso il “gelido” dei problemi economici e sociali dopo il Covid-19

Verso il “gelido” dei problemi economici e sociali dopo il Covid-19

Dopo mezzo secolo. stiamo andando incontro ad un altro “autunno caldo”, per quanto di ben altra natura da quel lontano ’69. Anzi, un autunno economico e sociale gelido, già freddo come l’inverno da brivido che seguirà, destinato a cancellare il tepore della primavera ed a sconvolgere il ritmo delle stagioni a seguire. Un rigore da stringere i denti e da doverne uscire con una strategia, dolorosa e sofferta, sopportata dal Paese intero, forse attraversato da tensioni sociali che potrebbero rivelarsi difficili da contenere.

Eppure, non è possibile pensare ad un governo di unità nazionale. Mancano le condizioni politiche nell’immediato, ma soprattutto non ci sono i presupposti di fondo che attengono la visione complessiva del Paese, quella concezione “sistemica” che comincia, ad esempio, dalla condivisione della prospettiva europea e, perfino, da una posizione schietta e davvero comune in ordine alla collocazione internazionale dell’Italia nel contesto occidentale.

Eppure, c’è un versante di grande rilievo – diretto a riscattare l’autorevolezza della politica e dei pubblici poteri – su cui fin d’ora potrebbero cimentarsi congiuntamente tutte le forze dell’intero arco parlamentare, a prescindere dai ruoli di governo o di opposizione che si sono scambiate negli anni più recenti.

Purché tutte – a prescindere dai diversi orientamenti – abbiano piena consapevolezza e rispetto di sé stesse, della loro funzione insostituibile, del valore della fiducia e della rappresentanza che i rispettivi elettorati affidano loro. Un piano che funzionerebbe anche da cartina di tornasole circa l’effettivo orientamento di ciascuna forza all’interesse generale del Paese, quello che noi chiamiamo “bene comune”, cioè quel virtuoso approdo in cui il vantaggio di ognuno non è mai a detrimento dell’altro.

Ove questa condizione fosse verificata, già si sarebbe fatto un passo non indifferente verso una dialettica politica più vera, meno pregiudiziale; addirittura una prima, sia pure ancora lontana, premessa ad una possibile convergenza, come taluni auspicano. Oppure, almeno si segnerebbe un punto a favore di quella reciproca legittimazione che ora manca tra le forze in campo.

Del resto, non occorre avere capacità divinatorie per capire che dopo questo governo c’è solo il passaggio elettorale. E ciò non tanto perché lo sostenga questo o quel leader, ma è la stessa fisionomia assunta dalla legislatura e dalle alleanze che sono subentrate l’una all’altra a rendere quanto mai improbabile che possa continuare questo balletto di coalizioni, a loro modo, sghembe, se non altro perché tutte al di fuori dei presupposti programmatici, a suo tempo, proposti agli elettori.

Del resto, l’attuale governo si è trovato investito da un tornado che gli ha imposto un programma ed una responsabilità che non avrebbe certo immaginato di dover sopportare al momento del suo insediamento. Non può certo abbandonare in mezzo al guado, ma una volta in vista dell’altra sponda – cioè definito il quadro dei provvedimenti europei, per un verso, e degli indirizzi strategici che dovrebbero scaturire da quelli che il Presidente del Consiglio ha chiamato pomposamente gli “Stati Generali” – gli converrà resiste impavido all’assalto alla diligenza condotta all’arma bianca da una opposizione impresentabile o piuttosto dichiarare – sia pure nella consapevolezza degli inevitabili chiaroscuri della sua azione – “missione compiuta” e rimettersi al giudizio degli italiani?

Intanto, non sarebbe male se tutti i partiti si dessero una regolata ed insieme rivendicassero  il legittimo primato della politica rispetto a quei poteri, in un certo senso, “alternativi”, che pensano di poter dilatare la loro influenza in misura direttamente proporzionale all’impallidimento della politica, per cui cercano attivamente di impoverirla e di liberare il campo. Credono di poter trarre vantaggio dalla debolezza della politica e forse, nel momento contingente, ci riescono pure, senza rendersi conto che, in effetti, su questa strada si inoltrano progressivamente in una landa deserta dove anche loro, prima o poi, soffriranno un’arsura fatale.

Senza una forte capacità di indirizzo da parte della politica, un Paese si inselvatichisce e può succedere anche ad una grande democrazia come quella americana.

Nel campo della comunicazione abbiamo assistito, in queste settimane, al valzer delle poltrone di direttore di alcuni tra i maggiori quotidiani nazionali, espressione di nuovi assetti padronali che si muovono, pur sempre, nei riservati ed ovattati salotti della grande finanza, in un contesto di concentrazioni editoriali e di incrocio di interessi vari, in capo agli stessi soggetti, che suscitano legittimi interrogativi.

Nel mondo delle imprese, si va affermando un tono aggressivo nei confronti dei pubblici poteri che, da un lato, sembra attestare la pochezza culturale di un nuovo ceto dirigente che, in quanto a stile della comunicazione, sembra dover mutuare i toni incivili della peggior opposizione politica, dall’altro pare, addirittura, voler intimidire il  governo. Nell’ambito della magistratura capita quel che sappiamo.

Sono questi i cosiddetti  “poteri forti”? Oppure c’è dell’altro?  C’e’ di meglio e di più? Per fregiarsi di essere “forti” questi poteri hanno bisogno di sentirsi “alternativi” alla politica e dimostrare di saperla asservire? Come si misura la loro forza, vera o presunta che sia?

Non è che siano poteri, secondo il classico  ed abusato schema,  forti con i deboli, immaginando, appunto, che la politica sia tale o tale la si possa ridurre ed, invece, deboli con i forti, ad esempio, se si confrontano con i loro omologhi di altri Paesi? A cominciare dal campo imprenditoriale.

In effetti, è poi la politica a debilitarsi da sola quando soggiace  volentieri ad altre entità, pur di prevalere non sui sistemi di potere che agiscono nella società civile ed a cui dovrebbe essa stessa garantire la cornice di un orientamento comune, bensì sugli altri soggetti del suo stesso campo. Cosicché chi, arruolando questa fazione o quel determinato centro di potere, quasi fosse una truppa mercenaria, vince la battaglia del momento, tutta interna al sistema politico-istituzionale, di fatto perde la guerra della propria autorevolezza. 

Questo recupero di una effettiva funzione di guida e di governo da parte della politica e dei pubblici poteri è tanto più necessario oggi in quel quadro di società globale da cui, qualunque cosa ne dicano i sovranisti, non di torna indietro.

Bisogna ristabilire le condizioni della “res publica”, nel senso letterale del termine. In caso contrario, ben altri poteri che spaziano ben oltre i confini nazionali degli Stati, finiranno per condurre il gioco delle nostre vite, senza traumatizzarci, anzi con manovre soffici ed avvolgenti che addomesticheranno perfino i nostri desideri. Forgiati ad uso e consumo – o meglio forgiati ” al consumo” – secondo quell’orientamento suadente – in effetti, un diktat inappellabile – che le grandi “corporations” multinazionali mettono in campo.

La “politica”, se è effettivamente tale, è un intralcio, possibilmente da rimuovere o da condizionare, da blandire o, nella peggior delle ipotesi, da comprare. Perché, per quanto male se ne possa dire, è pur sempre il luogo in cui si decide perla libertà oppure contro, per la democrazia o per una sua qualche caricatura, per la giustizia sociale o per il perdurare di divaricazioni offensive del comune senso di dignità umana.

La politica e per essa le forze  – tutte e qui concordemente – che, entro gli ordinamenti istituzionali, le danno vita  hanno almeno il compito comune di affrontare di petto la situazione, riprendere il bandolo della matassa, ristabilire la forza dei pubblici poteri, restituire il potere e la dignità che le spetta alla sovranità popolare che, così come è posta dalla Costituzione, ha con il “sovranismo” di Salvini una assonanza lessicale che non segnala alcuna parentela concettuale tra le due espressioni.

Nulla a che vedere con soluzioni centraliste o con la personalizzazione del potere, ma piuttosto con una condizione di partecipazione attiva e diffusa, di concorso popolare alla costruzione degli equilibri da ridisegnare. In questo senso, è urgente stabilire un atteggiamento di reciproco ascolto e di rispetto, di contenimento di una comunicazione politica talmente esasperata da confondere spesso i termini oggettivi delle questioni in campo, di reciproca tolleranza.

Non è questione di galateo, sia pure istituzionale, ma piuttosto di un dato che concerne, prima che i contenuti, l’etica del confronto politico, quella correttezza dei comportamenti che della politica costituisce, più di quanto non si creda, non tanto e non solo la forma, bensì soprattutto la sostanza.

Domenico Galbiati

 

Immagine utilizzata: Pixabay