Il coronavirus costa già oggi al mondo 570 miliardi $, ma il peggio deve arrivare – di Mauro Bottarelli

Il coronavirus costa già oggi al mondo 570 miliardi $, ma il peggio deve arrivare – di Mauro Bottarelli

Al netto della contabilità drammatica e quotidiana riguardo focolai e contagiati, qual è al momento l’impatto globale del coronavirus a livello economico? Ovvero, quanto già oggi la serrata imposta dalla pandemia sta impattando sulla catena di fornitura garantita dalla Cina alla produzione del resto del mondo?

Ragionando sul grado di dipendenza e l’incidenza dell’intermediazione del Dragone sul Pil mondiale, la Price Waterhouse Coopers ha cercato di quantificare il danno, partendo da tre presupposti già oggi identificabili nelle dinamiche in atto.

• Primo, il contenimento dell’epidemia si sta rivelando più lungo e difficoltoso di quanto non si pensasse solo tre settimane fa, quindi alcune previsioni ottimistiche riguardo una normalizzazione produttiva già dalla seconda metà di marzo appaiono ora irrealistiche.

• Secondo, l’impatto della pandemia sulle catene di fornitura è decisamente più severo di quanto preventivato dagli analisti, non fosse altro per il fatto che la Cina oggi pesa per il 17% del Pil mondiale e che province che rappresentano l’89% dell’export cinese sono in totale o quasi lockdown.

• Terzo, l’eccesso globale di capacity opera come fattore mitigante dell’aumento dell’inflazione solo per beni di categoria altamente competitiva e replicabile, ma la componentistica auto e quella tecnologica già patiscono effetti sugli approvvigionamenti.

Al netto di questo e utilizzando i criteri di previsione sul contagio del Johns Hopkins Center for Health Security e quelli sull’impatto economico di Lee e McKibbins (gli stessi utilizzati durante la crisi della Sars), Price Waterhouse Coopers ritiene che già oggi il conto che il mondo deve pagare in termini di rallentamento delle catene di fornitura sia pari a 570 miliardi di dollari.

E se questo studio non convincesse, altri principali indicatori proxy dell’attività industriale cinese (consumo di
carbone, traffico passeggeri a livello nazionale e nelle principali città e tasso di rientro nei grandi centri urbani dopo le festività di fine anno) e pubblicati nell’ultimo fine settimana paiono confermare palesemente come quello di un ritorno alla normalità produttiva della Cina entro la metà o la fine di marzo appaia uno scenario quantomeno
ottimistico.

Ma c’è di peggio, paradossalmente. A sottolinearlo ci ha pensato l’agenzia giapponese Nikkei Asian Review, il cui reportage parla decisamente chiaro: l’85% delle piccole e medie imprese cinesi teme di terminare le proprie disponibilità finanziarie liquide entro tre, quattro mesi al massimo e un terzo del totale non ritiene di poter andare oltre un mese di auto-sufficienza. Le Pmi prese in esame dall’articolo, infatti, non solo rappresentano il 99,8% delle aziende registrate in Cina ma danno lavoro al 79,4% dei cittadini, stando alle ultime statistiche ufficiali.

Di fatto, il cuore pulsante dell’economia cinese. Il quale, stando a queste cifre, avrebbe battiti sufficienti solo per altri quattro mesi. Poi, collasso. Anche perché un terzo degli interpellati ritiene che, già oggi, l’epidemia abbia talmente compromesso l’attività economica da far ritenere che le revenues dell’intero 2020 saranno dimezzate rispetto alle
attese. Difficile inoltre pensare che, a fronte di una crisi di finanziamento tale, si possano mantenere inalterati i tassi occupazionali correnti. I quali, ad oggi, non rappresentano ancora una preoccupazione immediata per le autorità, per due ragioni: primo, il grado di timore per l’emergenza sanitaria appare catalizzante. Secondo, solo il 25% degli
abitanti delle principali città cinesi – le cosiddette Tier 1 – sono rientrati dalle vacanze, questo contro il 93% dello stesso periodo del 2019.

Quando l’emergenza sarà finita, quantomeno a livello di quarantena di massa e impossibilità ai trasferimenti, allora l’impatto occupazionale (e quindi sociale) di un’eventuale crisi strutturale delle Pmi potrebbe divenire una nuova criticità – anche e forse soprattutto politica – per Xi Jinping.

La Banca centrale resterà ferma a guardare o interverrà con un diluvio di liquidità, magari sotto forma di taglio ulteriore del tasso sui prestiti a 1 e 5 anni, accompagnato da una riduzione delle imposte varata dal governo? “Se non hai più reddito, perchè hai perso il lavoro, una deduzione fiscale in più non ti cambia certo la vita”, rispondono i
cittadini interpellati nell’artcolo. E alla luce di questi due grafici, qualcosa sembra stonare.

Il primo mostra come in meno di un mese, la Banca centrale cinese
abbia iniettato nel sistema oltre 5 trilioni di yuan, circa 750
miliardi di dollari, il massimo assoluto a livello di stimolo monetario
aggregato.

Il secondo grafico, invece, ci mostra come a dispetto della situazione drammatica dell’economia reale, l’indice ChiNext, il Nasdaq cinese, dopo il tonfo di fine gennaio, oggi veleggi in rally e abbia segnato sul finire della scorsa settimana un lusinghiero +22% da inizio anno.

Sindrome Fed anche per la Pboc cinese, ovvero priorità assoluta al sostegno della Borsa, onde evitare sell-off in stile estate 2015 o gennaio 2016 e poi si vedrà? Il dubbio sovviene. E in base alle cifre emergenziali che giungono dal cuore battente dell’economia cinese, sorge spontanea una domanda: se davvero le prospettive di crisi delle Pmi sono quelle dipinte da Nikkei Asian Review, quanta liquidità dovrà immettere – sotto tutte le forme di stimolo possibile – la Pboc per evitare quello che appare sempre di più il prodromo al mitologico hard landing dell’economia del Dragone?

Mauro Bottarelli

Da un articolo pubblicato su Businnes Insider