Cartelle Equitalia: provano a portare a 10 anni la prescrizione- di Ruben Di Stefano

Cartelle Equitalia: provano a portare a 10 anni la prescrizione- di Ruben Di Stefano

In questi giorni, il Parlamento sta discutendo il disegno di legge di bilancio 2018 presentato dal Governo il 20 ottobre 2017, che dovrà essere, poi, approvato con eventuali modifiche entro il 31 dicembre 2017.

Si tratta di un provvedimento sulla manovra triennale (2018-2020) di finanza pubblica, ossia tutte le misure necessarie a realizzare gli obiettivi indicati nella nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (i.e., il DEF, originariamente Documento di programmazione economica finanziaria o DPEF), che definisce le linee economiche e finanziarie del Governo.

Tra i vari emendamenti inseriti successivamente dal Governo si segnala uno particolarmente allarmante per tutti i cittadini ed i contribuenti italiani.

Mi riferisco a quanto riportato a pagina 22 della bozza di legge che recita: “Gli articoli 49 e 50 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n.  602, si interpretano nel senso che il diritto alla riscossione dei carichi affidati all’agente della riscossione si prescrive con il decorso di dieci anni, quando riguardo ad essi è stata notificata e non opposta nei termini la cartella di pagamento ovvero uno degli atti (…)”, aggiungendo poi al successivo capoverso che “per i titoli resi esecutivi dal 1° gennaio 2018 il diritto alla riscossione di cui al comma 6 si prescrive con il decorso del termine stabilito dalla legge per la prescrizione di ciascuno dei relativi diritti di credito”.

Per i non addetti ai lavori, potrebbe sembrare il solito emendamento correttivo di una precedente stesura di un provvedimento in materia fiscale e/o tributaria. In realtà, non è affatto così.

Le conseguenze di un siffatto emendamento, qualora questo fosse confermato nel testo finale approvato dal Parlamento, sono alquanto preoccupanti. Soprattutto alla luce di quanto recentemente statuito in tema di prescrizione dei crediti erariali dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la Sentenza n. 23397 del 17 novembre 2016.

L’emendamento in questione  interviene a “ gamba tesa” sulla alquanto dibattuta questione della assoggettabilità o meno al meccanismo civilistico della conversione del termine di prescrizione, da “breve” (mutevole in considerazione della tipologia e natura del credito azionato dal Fisco) in ordinario (dieci anni), segnatamente nel caso in cui la pretesa dell’erario abbia conseguito il carattere della definitività in virtù della mancata impugnazione nei termini di legge  di una cartella esattoriale da parte del contribuente.

Andiamo con ordine. Tutto ruota intorno all’interpretazione dell’articolo 2953 del Codice civile, secondo il quale “I diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni”.

Però, se una cartella esattoriale regolarmente notificata al contribuente avesse ad oggetto crediti che si prescrivono in cinque o tre anni, anche dopo tale notificazione si dovrebbero continuare ad applicare tali termini “brevi” (che cominceranno a decorrere nuovamente dal giorno della notifica) e non quello decennale di prescrizione, che caratterizza i soli crediti accertati con una sentenza passata in giudicato.

Ciò, anche in considerazione di due ulteriori osservazioni. In primo luogo, la Cartella esattoriale non è certamente annoverabile nell’alveo dei titoli giudiziari, in quanto pur avendo le caratteristiche di un titolo esecutivo, resta un atto amministrativo incapace di acquistare efficacia di giudicato: ciò significa, quindi, che lo spirare del termine per proporre ricorso avverso la Cartella esattoriale, pur determinando la definitiva impossibilità di proporre impugnazione, produce solo ed esclusivamente l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito, mentre non dovrebbe determinare alcun effetto processuale in punto di prescrizione. In secondo luogo, essendo una norma speciale quella contenuta nell’art. 2953 del Codice civile, la stessa non potrebbe essere applicata per analogia oltre i casi nella medesima stabiliti.

Tuttavia, nonostante la chiarezza e ragionevolezza del dettato normativo, da molti anni la giurisprudenza di merito e di legittimità si è divisa tra due diversi e opposti orientamenti.

Secondo un prima prospettiva, nel caso di mancata contestazione nei termini di legge di una cartella esattoriale, la pretesa avanzata dal Fisco diverrebbe intangibile e non più assoggettabile alla prescrizione “breve”, bensì a quella ordinaria decennale di cui all’articolo 2953 c.c.

Secondo un diverso e certamente più corretto orientamento, il termine di prescrizione dei crediti azionati dall’erario nei confronti dei contribuenti, nel caso di mancata o tardiva impugnazione della Cartella esattoriale, rimarrebbe comunque quello “breve” originariamente previsto dall’ordinamento.

Questo è il quadro all’interno del quale i giudici di legittimità sono intervenuti, stabilendo definitivamente che le pretese della Pubblica Amministrazione (Agenzia delle Entrate, Inps, Inail, Comuni, Regioni, etc.) si prescrivono nel termine “breve”, variabile per ogni singola tipologia di credito, salvo nei casi in cui la sussistenza di quest’ultimo non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato ovvero con altro atto simile.

Specificatamente, la questione sulla quale le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi investe proprio l’interpretazione da dare all’art. 2953 del Codice civile, con particolare riguardo “all’operatività o meno della ivi prevista conversione del termine di prescrizione breve in quello ordinario decennale, nelle fattispecie originate da atti di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali ovvero di crediti relativi ad entrate dello Stato, tributarie ed extratributarie, nonché di crediti delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri Enti locali”, come anche “delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie o amministrative e così via”.

Dopo attenta e puntuale disamina della questione (per la quale si rimanda al testo completo della sentenza, reperibile al seguente collegamento ipertestuale http://www.lentepubblica.it/wp-content/uploads/2016/11/Sentenza-17.11.2016-n.-23397-Corte-di-Cassazione-Sez.-Unite.pdf), la Cassazione, dirimendo il citato contrasto che durava da anni, ha affermato in modo granitico che la mancata impugnazione di un atto accertativo della Pubblica Amministrazione o dell’Ente della Riscossione produce unicamente la definitività del credito statale, ma non  “anche l’effetto della c.d. conversione del termine di prescrizione breve (…) in quello ordinario decennale, ai sensi dell’art. 2953 c.c.”, poiché una siffatta trasformazione del termine può realizzarsi solo ed esclusivamente con l’intervento di un “titolo giudiziale divenuto definitivo”.

Si aggiunga infine che, tra le pregevoli argomentazioni utilizzate dalla Suprema Corte a sostegno della propria decisione, viene citata la nota pronuncia della Corte Costituzionale, con la quale, già nel lontano 2005, si era ritenuto indispensabile e urgente prevedere un termine perentorio per la notificazione degli atti della riscossione, osservando che, sotto il profilo del principio del diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione, non è “consentito lasciare il contribuente assoggettato all’azione esecutiva del fisco per un tempo indeterminato e comunque, se corrispondente a quello ordinario di prescrizione, certamente eccessivo e irragionevole”. (Corte Cost., 15 luglio 2005, n. 280).

Dunque, secondo le Sezioni Unite della Cassazione, una Cartella esattoriale, anche se notificata e non impugnata nei termini di legge, non può mai essere paragonata ad una sentenza o ad altro provvedimento giurisdizionale e non acquisisce, quindi, la cosiddetta efficacia di giudicato produttiva della conversione del termine “breve” in quello decennale di prescrizione.

Tornando all’emendamento in esame, appare evidente come la scelta effettuata dal Governo ignori e neutralizzi in toto le suddette indicazioni della Corte di Cassazione.

Le conseguenze sono chiare. Lo Stato avrà molto più tempo per azionare pignoramenti (mobiliari e/o immobiliari), ipoteche e fermi amministrativi di vario genere, senza temere la spada di Damocle della prescrizione.

Ed invero, ad oggi, i crediti spettanti all’erario sono soggetti al termine di prescrizione fissato dalla legge in base alla natura ed alla tipologia dello stesso credito: ad esempio, 3 anni per il bollo auto, 5 anni per le somme dovute per le violazioni al codice della strada, per le imposte locali e per contributi previdenziali successivi al 1 gennaio 1996, etc.

Pertanto, se dovesse diventare definitivo l’emendamento in parola, si otterrebbe l’effetto, alquanto paradossale, dell’aumento del termine di prescrizione della metà e anche oltre quello originariamente previsto.

Tutto ciò a danno, non solo dei molti italiani che da anni attendevano un chiarimento sull’annosa questione in discorso, ma anche e soprattutto della funzione di “custode del diritto” della Corte di Cassazione, nella sua qualità di organo supremo della Giustizia; organo, questo, che dovrebbe assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo nazionale, fornendo indirizzi interpretativi uniformi (come quello contenuto nella sentenza di cui sopra) per mantenere, nei limiti del possibile, l’unità dell’ordinamento giuridico  e certezza del diritto.

Tra l’altro, che si tratti di un ghiotto regalo al Fisco italiano, sembra essere confermato dalla seconda parte dell’emendamento in discorso, laddove si specifica che “Per i titoli resi esecutivi dal 1° gennaio 2018 il diritto alla riscossione (…) si prescrive con il decorso del termine stabilito dalla legge per la prescrizione di ciascuno dei relativi diritti di credito”.  Con parole diverse, il Governo riconosce e condivide la posizione delle Sezioni Unite, ma del tutto arbitrariamente decide di renderla operativa solo a partire da gennaio 2018, così da garantire all’erario la possibilità di riscuotere tutti quei crediti che ad oggi risulterebbero essere già abbondantemente prescritti.

In considerazione di quanto sin qui illustrato, è più che auspicabile (se non del tutto necessario) un tempestivo intervento del Parlamento per eliminare la modifica apportata dal Governo alla legge di bilancio attualmente in discussione.

Anzi, il suggerimento che sento di dare ai nostri rappresentanti è quello di formulare un nuovo emendamento che inserisca una norma di interpretazione autentica, volta a chiarire definitivamente che il termine di prescrizione dei crediti contenuti negli atti di riscossione è sempre quello “breve” originariamente previsto, in conformità al dettato normativo dell’art. 2953 del Codice civile, come anche all’interpretazione fornita dalle Sezioni Unite.

Tale apprezzabile iniziativa, sia ben chiaro, dovrebbe prescindere dal colore politico di appartenenza e dovrebbe essere dettata dalla sola volontà di contribuire fattivamente a rendere più giusto ed equo il nostro sistema fiscale. La modifica in esame, infatti, non costituirebbe certamente un deterrente per i c.d. “grandi evasori”, ma andrebbe ad incidere sui tanti, troppi, italiani in difficoltà, unitamente alla grave crisi economica e finanziaria che ha colpito il nostro paese negli ultimi anni.

Avv. Ruben Di Stefano

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