La riforma delle popolari modifica tutto il sistema bancario italiano

La riforma delle popolari modifica tutto il sistema bancario italiano

 

Il 25 marzo 2015, il decreto legge sulle riforme delle banche popolari ha ottenuto il via libera dal Parlamento apportando, così, sostanziali modifiche al panorama italiano delle banche popolari.

Prima dell’intervento normativo il testo unico bancario (TUB) prevedeva che le popolari fossero costituite in forma di cooperativa e che nessun socio potesse detenere più dell’1% del capitale, a meno che lo statuto della banca stessa non prevedesse addirittura limiti più bassi.

Inoltre, lo stesso TUB 43 sanciva per le banche popolari il principio del voto capitario. In pratica, ogni socio delle banche di questo tipo poteva esprimere nell’assemblea degli azionisti un solo voto, secondo il criterio “una testa, un voto”, indipendentemente dal numero di quote possedute. Di conseguenza, queste non sono mai state banche scalabili, poiché nessun soggetto, e soprattutto nessun’altra banca, ha mai potuto acquisire da solo il controllo diretto della maggioranza dei voti nell’assemblea.

Con il recentissimo intervento normativo, nel marzo 2015, il legislatore ha previsto che le banche popolari con un patrimonio superiore agli 8 miliardi dovranno trasformarsi in s.p.a. nei successivi 18 mesi, con la conseguente cancellazione del voto capitario e, quindi, del limite dell’1% per il possesso del capitale da parte di un singolo socio.

Le popolari interessate da tale riforma, in particolare Ubi, Banco Popolare, Bpm, Bper, Creval, Popolare di Sondrio, Banca Etruria, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Popolare di Bari, sono divenute a tutti gli effetti scalabili.

La reazione di Piazza Affari è stata allora degna di nota, con impennate dei titoli registrate intorno a picchi massimi del 30%, nei primi tre mesi dopo la presentazione del decreto legislativo in Parlamento.

I possibili scenari configurabili dopo questa riforma sono due: il primo riguarda possibili scalate da parte di player esterni, il secondo più plausibile riguarda invece possibili fusioni dando avvio ad un processo di consolidamento del sistema bancario.

Proprio la loro natura di cooperative, con la rispettiva disciplina, ha impedito che si formassero consistenti “noccioli duri” di azionisti che potessero sostenerle di fronte ad un attacco esterno. Ognuna di esse ha migliaia di soci, e se qualcuno di tali soci ha partecipazioni consistenti non ha comunque un dimensionamento sufficiente a poter evitare takeovers, anche non ostili.

Certo è che la riforma delle popolari, i cui effetti de facto si potranno vedere solo tra qualche anno, porterà ad un completo riassetto del settore bancario italiano: la riforma tenderà ad infatti incidere su ogni singola banca coinvolta e, più precisamente, sul loro attuale assetto proprietario che, attualmente, si concentra sulle fondazioni di riferimento, con il chiaro obiettivo di migliorare la governance,

Nate con l’obiettivo di distribuire i dividendi percepiti grazie alla loro partecipazione nella relativa banca, come sancito nella legge Amato Carli del 1990 e poi in quella Ciampi del 1998, ad enti non-profit, le fondazioni hanno supportato la crescita delle banche di cui erano “proprietarie”, intervenendo, nei recentissimi anni di crisi anche con aumenti di capitale consistenti, raccogliendo fino ad un quarto dei 27 miliardi di euro di cui, tra il 2009 ed il 2012, le banche hanno avuto bisogno.

La carenza di capitali non era, però, che la punta dell’iceberg dei problemi delle principali banche del panorama italiano. L’influenza politica e gli investimenti locali che hanno caratterizzato le fondazioni hanno portato all’acuirsi del rischio di concentrazione; linee di credito e mutui ipotecari sono stati contratti per poter finanziare acquisti immobiliari, aumenti di capitale o per aprire posizioni in derivati e strumenti di finanza strutturata.

Queste attività sono state a volte, inserite nel conto spese delle banche di riferimento che hanno dovuto fissare obiettivi di breve periodo al fine di generare rapidi dividendi che potessero coprire gli investimenti non direttamente correlati all’attività core.

I punti essenziali della riforma prevedono, infatti, che il patrimonio di ciascuna fondazione non potrà essere concentrato, direttamente od indirettamente, verso un singolo asset per un ammontare complessivo ad un terzo del totale attivo, valutato al valore di mercato. Sarà vietato fare ricorso al debito per finanziare i propri investimenti salvo che per esigenze di liquidità e per una durata massima di cinque anni, in aggiunta al fatto che non sarà consentito assumere posizioni in derivati se non con finalità di copertura e le cui eventuali perdite non impattino sul patrimonio. Infine, si prevede, che sia de facto riconosciuta una discontinuità, pari ad almeno un anno, tra gli incarichi amministrativi e politici e la nomina di uno degli organi della fondazione.

La trasformazione delle popolari e la relativa autoriforma delle fondazioni, se da un lato, può portare alla “demutualizzazione” delle banche interessate, dall’altro può risolvere il problema dell’eccessivo rischio di concentrazione, fungendo da driver per ritenere la fiducia dei nodi locali e del controllo sul mercato bancario domestico, con impatti positivi sulla capacità di generare utili ed attrarre capitali provenienti dall’estero, sfruttandone i benefici ed impedendo, con opportune fusioni, prese di potere.

Dalle fusioni  per le banche potrebbero diminuire quei costi che possiamo definire di struttura in quanto, in primis vi sarebbe una riduzione del numero di filiali al fine di evitare sovrapposizione ma, una fetta della riduzione dei costi potrebbe derivare anche da costi di marketing, finanza, direzione centrale.

Anche se la nuova normativa riguarda le sole banche popolari molto si sta muovendo anche nel mondo delle BCC. Non è facile capire quale siano le direzioni  delle BCC nelle varie regioni; c’è chi indica la via dell’unico soggetto dentro cui far confluire gli  istituti del sistema cooperativo italiano.

L’integrazione in gruppi su base regionale o interregionale potrebbe essere una soluzione condivisa da molti .  Una posizione adatta a mitigare tra centro strategico, Bcc e territorio, con possibilità di ottenere un largo consenso tra gli istituti. A breve comunque,  si dovranno definire gli assetti e vedremo le nuove aggregazioni territoriali.

Gianluca Scialanga