La Rai si riformerà solamente quando sarà “venduta” agli italiani creando una proprietà basata su di un vero azionariato popolare

La Rai si riformerà solamente quando sarà “venduta” agli italiani creando una proprietà basata su di un vero azionariato popolare

Chissà perché di fronte al cavallo più famoso d’Italia, quello romano della Rai di Viale Mazzini 14, tutte le buone intenzioni scompaiono. O, almeno, vengono rinviate a tempi migliori.

Una riflessione che in queste ore sembra valere un po’ per tutti coloro che hanno appena deciso di rinnovare il Consiglio d’amministrazione della Rai. Quello che, di solito, siede sei, sette piani più in alto della criniera del cavallo morente di Francesco Messina.

Un cavallo comunque grandioso nella sua apparente fragilità, colto nel momento drammatico dell’abbandono finale. Una posa che non deve ingannare.  E’ lo stesso dal 1966 e sta per compiere i 50 anni e non li dimostra.

Come farà finta di non dimostrare la sua vera età l’Azienda che, con il nuovo Consiglio d’amministrazione appena nominato, andrà avanti su percorsi consolidati e certi. Ciò varrà per i programmi d’informazione. Varrà per gli appalti. Anche se, forse, qualche vampata immaginifica di Freccero creerà delle speranze.

Il prossimo anno ci sarà un altro compleanno. Sarà il quarantesimo della cosiddetta lottizzazione. Quel metodo di sistemare gli incarichi che deve tutta la sua fama allo scomparso Mauro Bubbico ed ai risultati elettorali di quel 1976, quando il Pci fu ad un passo dal superare la Dc. Finì invece 38, 71 % a 34, 37 %. La Dc di Zaccagnini capì, però, che stava finendo un’epoca e che bisognava mettersi a tavola a discutere con tutti gli altri.

A partire dalla Rai che, come allora, tutti vogliono indipendente e professionale, ma solo quando non hanno la maggioranza in Parlamento ed il controllo del Ministero del Tesoro, vero arbitro delle nomine che contano nell’Azienda.

Stiamo parlando di una Rai che, al di là delle apparenze, interessa non solo e non tanto per i suoi telegiornali, del resto seguiti sempre meno, bensì per i consistenti giri d’affari che stanno dietro e in cima ai palinsesti delle tre reti e dei loro programmi. Centinaia e centinaia di milioni di euro.

Anche il più grande “rottamatore” di tutti i tempi, in queste ore, ha dovuto segnare il passo dinanzi al cavallo di Viale Mazzini.

La giustificazione di Matteo Renzi è stata che non c’era tempo per concludere prima alcuna riforma e che non si poteva fare altrimenti se non usare il vecchio sistema della lottizzazione il quale, in realtà, nel corso del tempo è diventata un’altra cosa. Solo una pallida e, a volte, squallida, copia di un metodo di gestione della Rai che, nata democristiana, doveva trasformarsi in qualcosa di diverso: un’azienda più pluralista. Una Rai destinata ad essere più rispettosa delle nuove necessità di un intero Paese ed equilibrata di fronte ai mutamenti politici, economici, sociali e culturali in atto.

Con il tempo, invece, in mano ad uomini sempre più modesti e tecnicamente meno dotati, questa Rai ha usato esclusivamente il bilancino miope del potere, giungendo a volte a soluzioni esilaranti che hanno fatto diventare un altro cavallo, quello di Caligola un vero gigante.

Anche il Movimento 5 Stelle sembra sia improvvisamente imbolsito dinanzi al cavallo della Rai. Ha persino rinunciato a fare le primarie. Dicono per ragioni di tempo. Ma la votazione non era preannunciata da molto tempo? Ha rinunciato a fare l’Achille sotto la tenda e, di colpo, improvvisamente, ha deciso di partecipare e prendere un componente il Consiglio di amministrazione votando, con il Sel.

Viene spontaneo chiedersi perché, dopo aver rifiutato di entrare a fare parte, o sostenere un Governo, dopo essersi chiamato fuori dalla scelta del Presidente della Repubblica, all’improvviso il Movimento fondato da Beppe Grillo abbia deciso che per la Rai val bene…. un Freccero.

Un Freccero, si badi bene, che al pari degli altri nominati, non c’entra proprio niente con questo ragionamento perché si tratta, fino a prova contraria, di tutta gente commendevole e meritevole della più ampia fiducia. Il problema non è quello dei nomi, che sono fuori discussione, anche se, come già accaduto nel passato per molti consiglieri Rai, potrebbero trasformarsi solamente  in tanti passacarte; destinati solo a conservare equilibri duri a morire e, lo ripeto ancora una volta, d’interesse soprattutto per quanto riguarda la distribuzione dei budget.

Anche il comportamento della cosiddetta minoranza Pd merita una veloce considerazione. Hanno votato per la candidatura di Ferruccio De Bortoli. Un nome di assoluto rispetto. Di tale spessore che, forse, però, avrebbe avuto un senso per una candidatura alla Presidenza della Rai impegnandosi in una battaglia a viso aperto dentro e fuori il partito. Sembra, insomma, che anche la minoranza del partito di Renzi eviti di cogliere il punto di fondo di questa vicenda e cioè che non si rinnova, come sarebbe invece necessario ad un’azienda nazionale strategica come la Rai, accettando la logica delle scorse ore e che, in sostanza, sembra più aver rinnovato il famoso “patto del Nazareno” in versione televisiva piuttosto che la posa di una prima pietra della ricostruzione.

Un’altra occasione persa, dunque? Soprattutto per avviare una riforma vera che non può non passare da un’autentica rivoluzione nel modo di concepire la Rai, il suo rapporto con la società Italia e con il cosiddetto Paese reale, dal quale appare sempre più scollegata. La programmazione e la fuga degli spettatori lo stanno a confermare.

In qualche modo, l’anniversario del 1976 ha la forza della riproposizione di una questione che non sembra più eludibile e non sarà certo il rinnovo di questo Cda a risolvere i più grossi problemi dell’Azienda concessionaria del Servizio pubblico.

Oramai, dopo l’imbastardimento del metodo della lottizzazione, il sistema appare uno solo e radicale: vendere la Rai. Vendendola agli italiani, però! Individuando e dando vita ad un sistema di azionariato diffuso, basato sul possesso delle azioni da parte dei cittadini e non dei gruppi organizzati, dei partiti o, ancor meno, delle grandi imprese e delle banche.

Saranno poi tutti questi milioni di azionisti a scegliere manager e programmazione. Il resto sono finte riforme destinate a non risolvere mai i veri problemi di quella che piace sempre definire la più grande azienda culturale italiana ma che, alla fine, si rivela solo una forma surrettizia di finanziamento di alcuni gruppi di potere, dentro e fuori i partiti, e ben precise congreghe che si spartiscono appalti milionari.

Giancarlo Infante