La Grecia non onora il debito con il Fondo Monetario Internazionale e non si vede uno sbocco alla crisi

La Grecia non onora il debito con il Fondo Monetario Internazionale e non si vede uno sbocco alla crisi

La Grecia non ha pagato alla scadenza la rata di 1,6 miliardi di debito con il Fondo Monetario Internazionale, FMI, diventando così il primo paese occidentale a non onorare ufficialmente il proprio debito.

Contemporaneamente, “The Guardian” di Londra pubblica un documento riservato, interno alla cosiddetta Troika composta da Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale e Commissione Europea, che modifica sensibilmente il punto di vista dal quale si deve guardare alla crisi finanziaria greca e agli atteggiamenti che l’Europa dovrebbe avere nei confronti dei problemi affrontati oggi sia con la Grecia, sia con gli altri paesi europei cui è richiesto il rientro da un debito pubblico eccessivo.

Per sei anni, dice la nota, il Paese mediterraneo è stato sottoposto alla cura dell’austerità e del rigore di bilancio, con l’unico risultato di rendere il suo debito ancora meno sostenibile. Sei anni di errori durante i quali si è chiuso gli occhi davanti al fatto che la medicina potesse essere peggiore della malattia.

In sostanza, è riconosciuto il fallimento della politica fiscale imposta ad Atene, sulla falsa riga di quella predominante nel resto d’Europa.

L’amara conclusione è che seppure la Grecia accettasse l’accordo proposto nelle ultime ora il suo rapporto debito/Pil nel 2030 sarebbe ancora pari al 118% e che allo Stato ellenico sarebbe impossibile arrivare sotto il 110% nel 2022 come concordato tre anni fa dall’Eurogruppo (il Consiglio dei ministri delle finanze dell’eurozona).

I documenti resi noti dal quotidiano londinese precisano che l’introduzione di alcune deroghe alla politica di rigidità fiscale seguita fino ad oggi sarebbero addirittura in grado migliorare la sostenibilità del debito, smentendo così alla radice la logica stessa delle trattative in corso sfociate nella rottura “ufficiale” del negoziato.

Sembrerebbe, dunque, giunto il momento di andare oltre la politica fallimentare dell’austerità e riconoscere il fatto che varare una politica fiscale restrittiva durante un periodo di crisi è contro ogni logica macroeconomica riconosciuta a livello internazionale, come del resto denunciano da anni economisti quali il premio Nobel Paul Krugman.

Non è un caso che gli Stati Uniti siano usciti dalla crisi già nel 2010 applicando una politica monetaria espansiva, abbassando i tassi di interesse e spingendo gli investitori a spostare i soldi dai mercati finanziari all’economia reale.

Anche negli Usa, dove la crisi è nata e da dove ha contagiato tutto il mondo, si è dovuto affrontare in qualche modo la stessa questione incontrata oggi dalla Troika con la Grecia: quella del “too big to fail”.

La logica del “troppo grande per fallire” implica l’inevitabilità del salvataggio, dal momento che un default trascinerebbe con sé l’intero sistema. Questo spiega perché l’amministrazione repubblicana di George Bush attivò la Federal Reserve immettendo denaro nell’economia e sostenendo istituti bancari e finanziari americani sostanzialmente già falliti.

Va però precisato che gli Stati Uniti hanno il vantaggio enorme dato loro dall’egemonia valutaria del dollaro, che permette di stampare moneta senza dover temere eccessivamente l’inflazione grazie al ruolo svolto dal biglietto verde quale prima valuta internazionale.

Il salvataggio delle banche statunitensi ha portato, di fatto, alla “nazionalizzazione” di diverse banche o ad impegnarsi in un forte sostegno finanziario, come avvenne nel caso della Fannie Mae e Freddie Mac nei cui portafogli si trovavano 600 miliardi di dollari di titoli tossici.

Tali titoli tossici sono nati dall’impacchettamento di diversi mutui sulla casa che i cittadini americani avevano accumulato nel corso degli anni nonostante andassero al di là delle loro effettive possibilità economiche.

Una conseguenza della politica iniziata alla fine degli anni Ottanta sotto la presidenza Reagan, allorquando gli istituti di credito iniziarono ad erogare mutui alle famiglie meno abbienti per alimentare il “sogno” americano e sostenere i consumi.

Il risultato fu la cosiddetta “bolla” immobiliare caratterizzata dal fatto che il valore delle case aumentavano, la gente ipotecava la casa in base ad un valore di mercato gonfiato disponendo di più soldi da spendere per un tenore di vita che, in realtà, non si poteva permettere.

Le banche sapevano esattamente quello che stavano facendo perché il meccanismo  aumentava i loro profitti fino allo scoppio della bolla, momento in cui il crollo del mercato immobiliare rendendo insolvente migliaia di famiglie costringeva il Governo, e quindi gli stessi contribuenti, a farsi carico del danno per non vedere sprofondare tutto il sistema.

Le analogie con la Grecia ci sono, anche se non immediatamente evidenti. L’esecutivo greco ha falsificato il bilancio nel corso degli anni, dichiarando soldi che in realtà non possedeva. Tutto per poter ottenere l’ingresso nell’euro. Anche perché nel momento in cui la moneta unica entrava in vigore quasi nessun Stato aderente rispettava i parametri d’accesso concordati.

Tutta la politica fiscale europea è stata ossessionata dal rispetto del rapporto debito/Pil e si sono seguite politiche restrittive che hanno portato ad una riduzione del prodotto interno lordo perché le politiche di austerità hanno influito negativamente sul reddito e quindi sui consumi.

Nel caso della Grecia bisogna chiedersi chi sarà a pagare, comunque vadano le cose. Di sicuro, non gli “oligarchi” che in larga parte si spartiscono il Paese. A pagare sarà la gente comune, quella che non gode della globalizzazione dei mercati, ma la subisce. Saranno loro a rimanere a secco nel caso chiudano i bancomat e lo Stato non paghi più stipendi e pensioni.

Luca Bertuzzi