Renzi vuole a tutti i costi la fiducia proprio oggi che ha stravinto a Montecitorio

Renzi vuole a tutti i costi la fiducia proprio oggi che ha stravinto a Montecitorio

Matteo Renzi, è stato subito detto, sfida il Parlamento. La decisione di porre la fiducia ha in effetti scatenato la bagarre in un’aula in cui la tensione e l’eccitazione erano avvertibili in maniera tangibile. Soprattutto, dopo il lungo tira e molla giocato nei giorni scorsi sull’ipotesi che il Governo si decidesse a compiere un passo da molti considerato di “rottura” sia verso l’opposizione, sia verso la minoranza interna.

C’è da chiedersi se, però, più che andare contro qualcuno, la scelta di Renzi non sia quella di andare a favore di se stesso. Soprattutto, della sua immagine, quella politica, ovviamente, e quindi dei progetti che ha in mente.

L’intenzione del Presidente del Consiglio, in realtà, era quella di porre addirittura la questione di fiducia già sulle pregiudiziali di costituzionalità giunte al voto oggi. Si sarebbe fatto convincere solamente all’ultimo dai parlamentari del gruppo di “Per l’Italia- Centro Democratico” di cui è capogruppo Lorenzo Dellai e di cui fa parte anche Bruno Tabacci.

La fiducia viene adesso posta nonostante non ce ne sia oggettivamente bisogno.

Sulle pregiudiziali, il divario di 175 voti è stato eloquente da solo. Inoltre, da giorni, la minoranza interna sembrava aver ridotto proprio solamente alla questione di fiducia le sue recriminazioni. Forse, accontentandosi anche delle promesse di rivedere taluni aspetti della riforma costituzionale del Senato. Promesse funzionali, del resto,  a disinnescare tutte le accuse di “democraticida” gettate sul capo di Renzi da quanti leggono il combinato disposto della doppia approvazione della riforma costituzionale e della legge elettorale come l’avvio del governo del “primo console”.

Un tempo, seguendo le belle usanze della Prima Repubblica, la fiducia veniva chiesta solamente se e quando il barometro indicava seriamente il peggio e la vita degli esecutivi si giocava sul filo di pochissimi voti.

Oggi vediamo che, male che vada, nonostante 11 gli siano comunque mancati, il Governo Renzi deve perdere per strada ben 176 voti se proprio vuole cadere.

Neppure se gli votassero compattamente contro tutti i 120 “riottosi”dei suoi, quelli che preferirono non presentarsi al voto nell’Assemblea del Gruppo Pd  di Montecitorio di qualche giorno fa, riuscirebbero a raggiungere l’obiettivo di mandarlo a casa.

Allora perché vuole la fiducia ad ogni costo? Una bella domanda che necessita di un insieme di risposte.

Intanto, perché così facendo, cadono di colpo i circa 500 emendamenti sopravvissuti alla riforma della legge elettorale, di cui una dozzina presentati degli stessi suoi critici interni al Pd. Una cosa imbarazzante. Certo, si tratta solo di piccoli ostacoli. Da cui, però, avrebbero potuto venire degli antipatici inciampi ed il rischio di non fare una bella figura.

Non è nel suo stile far vedere che “campicchia” e che si lascia condizionare. A chi non ha dimenticato fatti e personaggi del passato, in Renzi sembra di intravedere degli aspetti, dei modi di fare, che potrebbero farlo somigliare sia ad Amintore Fanfani, sia a Bettino Craxi.

Entrambi capaci di praticare la metodologia dei grandi compromessi, non a caso erano degli abili politici, avevano però fatto del piglio decisionista e della voglia di mantenere a tutti i costi il punto, il loro punto!, un  tratto caratteristico e peculiare. Così essenziale che finiva per diventare un aspetto del loro modo di essere e di rappresentarsi. Quindi, di essere un leader.

Matteo Renzi, proprio perché ha i numeri dalla sua parte, ha deciso di contarsi e di costringere anche tutti gli altri alla conta. I suoi critici interni e gli avversari. A partire da Beppe Grillo e da Silvio Berlusconi.

I suoi dovranno decidersi a votargli la fiducia. Una fiducia del tutto diversa da quelle votate finora. Questa è quella destinata a diventare l’atto conclusivo con cui viene riconosciuta ed accettata la sua leadership.

La legge elettorale, dunque, non c’entra più. La sostanza del provvedimento non ha niente a che vedere con il vero confronto politico che egli intende impostare e sostenere quando dice lui, come dice lui e dove dice lui.

Non sappiamo se egli sia un cultore della storia delle grandi battaglie, ma è certo che, come i condottieri di una volta, prima studia i suoi avversari e poi sceglie il terreno su cui batterli.

Tra l’altro, ma sicuramente ai suoi occhi la cosa appare come una questione minore, il voto contro la fiducia annunciato da alcuni del Pd non potrà che portarli automaticamente al di fuori del partito e liberare lui da alcuni dei fastidi sperimentati negli ultimi tempi.

Può darsi che, però, Matteo Renzi abbia valutato anche altri elementi emersi nei giorni scorsi. Al punto da spingerlo verso una fiducia che i numeri gli danno per scontata e che quindi, chiedendola, potrebbe farlo apparire come colui che spara sulla Croce Rossa.

Non gli saranno sfuggiti gli appelli al Capo dello Stato sulla legge “liberticida” che si starebbe per introdurre. Non gli sarà sfuggito il “commiato” di Enrico Letta. Il predecessore che si accinge ad andare ad insegnare politica a Parigi, ma intanto informa di essere sempre sulla piazza, proponendosi come un eventuale candidato naturale al momento di una possibile sostituzione del successore.

Non sarà neppure sfuggito al Presidente del Consiglio che il parziale successo in sede europea, per altri è stato un parziale insuccesso, sulla questione dei migranti e, soprattutto, l’antipatica questione sorta con Barack Obama, a proposito della mancata informazione sulla tragica scomparsa di Giovanni Lo Porto, rischiano di appannare di molto la sua immagine di giovane statista, figura del tutto inusuale nella storia italiana.

Infine, ma chissà che qui non si trovino i reali motivi della ricerca di una fiducia voluta a tutti i costi, c’è da considerare che il vero ambito su cui Matteo Renzi si gioca il proprio ruolo e la propria immagine è la questione dell’andamento dell’economia e dell’occupazione.

Già le cifre sui nuovi occupati non convincono completamente tutti gli esperti. Già tutti gli indicatori economici ci dicono che, a differenza di altri paesi europei, non abbiamo ancora nelle vele tutto il vento della ripresa, cominciato altrove a soffiare grazie al calo del prezzo del petrolio e al cambio euro dollaro, oggi quasi alla parità con l’1,09.

Anche sul cosiddetto “tesoretto” su cui Renzi si è speso molto, c’è da constatare come il tema sia uscito drasticamente di scena dopo l’aut aut di Banca d’Italia e, soprattutto, dopo che il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan, ha subito smontato ogni facile illusione. Quel “di più” non esiste. Può essere frutto solo di un fatto contabile che, così come è emerso,  può riscompare tra i flutti agitati della spesa pubblica.

In più, l’Unione Europea non ci consente certamente di scialare proprio adesso. Intanto, perché noi abbiamo sempre un debito da ripagare e, poi, perché non ci sarebbe momento più sbagliato di questo, visto come tutti sono impegnati a fare la faccia cattiva alla Grecia e al suo ministro Yanis Varoufakis.

Inoltre, sembra che le cose rischino di non andare bene anche per quanto riguarda i prossimi gettiti fiscali. La bella decisione, infatti, di nominare a dirigenti all’Agenzia delle Entrate gente che non ne aveva i titoli, cosa fatta esplodere dalla recente sentenza della Corte Costituzionale, avrebbe di fatto decapitato il nostro apparato fiscale. Pare che stiano riducendo al minimo l’attività di incasso di tasse nuove e vecchie perché non hanno abbastanza dirigenti per firmare le richieste dei balzelli.

E’ questo un problema più serio di quanto non si pensi e che rischia di essere aggravato dai ricorsi attesi a valanga sulle cartelle già inviate nel frattempo da chi non aveva legittimamente il potere di firma. Cose solo italiane.

C’è chi, poi, già prevede un ulteriore disastro dei conti pubblici provocato dalla scadenza di una serie di contratti sui derivati fatti allegramente da regioni e comuni, oramai andati oltre il limite della bancarotta.

Insomma, tutto questo potrebbe costituire il vero motivo per cui il Presidente del Consiglio ha valutato che fosse il caso di incassarsi una fiducia, in realtà, messa in discussione solamente sui giornali.

Adesso, chi vuole vedere cadere Matteo Renzi a tutti i costi, deve solo sperare che i 176 voti di cui sopra scompaiano per incanto al momento della votazione finale a scrutinio segreto cui il provvedimento sarà sottoposto subito dopo la fiducia. Ma, al quel punto, Matteo Renzi, ammesso che ciò accada, avrà sempre il destro per far fare brutta figura a chi a viso aperto gli ha prima detto di sì e, poi, nel segreto dell’urna lo pugnala alle spalle.

Giancarlo Infante