Perché il terremoto nel Nepal non è uno “qualsiasi” e richiede il nostro intervento immediato

Perché il terremoto nel Nepal non è uno “qualsiasi” e richiede il nostro intervento immediato

Perché il terremoto in Nepal non fa scattare già la proverbiale solidarietà degli italiani, in altri casi espressa immediatamente? Nonostante la terribile grandiosità del sisma e delle sue conseguenze, sembra che restiamo come ipnotizzati da un fatto avvenuto tanto lontano e in contrade a noi così estranee, anche se fino ad ieri colme di richiamo esotico e misterioso.

Non è un caso che Pier Paolo Pasolini scelse Bhaktapur, un’altra delle città imperiali della piana di Katmandu, oggi anch’essa duramente colpita dal terremoto, per il suo “Mille e una notte”.

Nessuno ha ancora avviato raccolte di fondi di solidarietà. Non abbiamo notizie di consistenti spedizioni di aiuto in uomini e mezzi. La nostra Protezione Civile non sembra andare  oltre l’invio di alcuni esperti. Probabilmente le solite, eccezionali e famose unità cinofili che tanto esperte sono diventate grazie ai devastanti terremoti nostrani.

Se non ci fossero le tremende immagini diffuse con dovizia di dettagli dalle televisioni ci sarebbe da chiedersi: lontano dagli occhi, lontani dal cuore?

Questo, invece, non è un terremoto “qualsiasi”. Anche se i terremoti non sono mai una cosa “qualsiasi”, perché capaci tutti di produrre lutti e rovine, in ogni caso irreparabili, nell’animo e nei beni di molti.

Questo è, infatti, un terremoto particolare perché rischia di costituire un’autentica catastrofe umanitaria, culturale, economica, destinata a trasformarsi persino in una rovina antropologica.

Il Nepal è un paese poverissimo. Aperto al resto del mondo solamente dalla seconda metà del ‘900, negli ultimi anni ha preso un po’ di ossigeno grazie al turismo internazionale. Prima, quello della suggestione della stagione dei “figli dei fiori” del dopo ’68, alimentato soprattutto dall’hashish a buon mercato, dalla ricerca dell’esotismo e della raffinatezza dell’Estremo Oriente misterioso.

Una raffinatezza che ancora oggi, forse è meglio dire ieri?, si respirava in ogni angolo nelle città di Kathmandu, Bhaktapur e Patan, detta pure Lalitpur, oppure nei monasteri e nei borghi sparsi sulle montagne.

Una ricchezza artistica ed architettonica che, per quanto appare a volte a noi occidentali trascurata, ha la stessa forza emotiva ed espressiva del peso della cultura accumulata dal tempo nelle nostre città d’arte e nelle contrade italiane. In qualche modo, esiste un legame sottile ed intrigante tra i musei a cieli aperto nepalesi e quelli di casa nostra.

Altro ossigeno è arrivato nell’era moderna grazie al trekking, alle grandi escursioni di massa verso le vette himalayane, a partire dall’Everest, su cui oramai è in grado di andarci chiunque grazie ad un sistema turistico organizzato secondo le regole dei grandi numeri, proprie dei criteri del business dell’industria del tempo libero occidentale.

I nepalesi che, in pace, sono tra le popolazioni più miti e mansuete del pianeta, non hanno faticato molto a piegare i ritmi delle loro altissime ed inospitali vette alle necessità di un mercato internazionale sempre più esigente. Non tutti potevano, infatti, come i Gurka, contare sul “soldo” da parte del Governo britannico che dei discendenti di uno dei popoli “militari” più eccezionali della storia umana, proveniente dalla città di Gurka, appunto, ha finito per fare mercenari addestratissimi e spietati. Anche i tedeschi di Monte Cassino e gli argentini delle Falkland, o Malvinas, ne sperimentarono forza e determinazione.

Per il Nepal era ed è importante organizzare più spedizioni possibili, dall’Everest al K2, al Makalu. Le spedizioni assicurano l’arrivo di turisti, di semplici escursionisti, di alpinisti di professione che alla fine dell’anno lasciano l’indispensabile valuta pregiata necessaria a fasce sociali sempre più ampie per crescere. Sia pure restando in coda alla lista dei paesi più evoluti del mondo: un nepalese medio ha un reddito annuale che, a mala pena, supera i 500 dollari. Che fine farà tutto ciò?

Altre modeste risorse debbono, altrimenti, essere ricercate negli scambi commerciali con il Tibet della Cina e con l’India. I grandi ed imbarazzanti vicini che, soprattutto il secondo, influiscono e non poco nella vita del piccolo ed indifeso Nepal. Oggi, in realtà, questo, il Paese delle vette himalayane per eccellenza, è letteralmente sommerso dalla marea degli indiani che ne hanno stravolto gli equilibri fino a far diventare 1 a 10 l’equilibrio tra gli abitanti pronipoti degli antichi nepalesi e gli indiani veri e propri saliti fin qua a controllare quasi tutta l’economia e la vita sociale di queste contrade.

Il terremoto delle ultime ore, così, non è uno qualsiasi perché può significare, assieme, la fine di una Paese, di un Popolo, di una Nazione, quindi, di una cultura.

Intanto, cominciamo per dire che la scossa di sabato scorso potrebbe aver messo letteralmente in ginocchio circa sei milioni di persone. Questa è la stima che le organizzazioni umanitarie internazionali operative nel Nepal stanno facendo, confermando che tanta è la gente senza più neppure un riparo e un desco attorno cui sedere e riposare.

La piana di Kahtmandu, l’area colpita molto forte e molto da vicino, assieme alla zona di Pokkara, la seconda città nepalese, da sola ospita 2,5 milioni di abitanti e costituisce il punto di riferimento di tutto il resto del Paese.

La regione di Pokkara raccoglie circa altri 300 mila abitanti, cui vanno aggiunti gli ancora tre milioni di nepalesi distribuiti nelle zone più vicine e più duramente toccate dal terremoto, con altre città che mediamente hanno una popolazione di 100 mila abitanti. Questa gente, già oggi, sente sulla propria pelle la mancanza di cibo, acqua e medicinali.

L’ingente numero di feriti ha di colpo, in pochissime ore, fatto esaurire le scorte di medicinali di tutti gli ospedali. Il mondo occidentale, per ora, è riuscito a far partire 3000 ( tremila! ) kit di pronto intervento. Si tratta della metà del numero dei feriti finora raccolti. Un numero destinato forse a rivelarsi un’infima quantità rispetto al totale dei bisognosi di cure.

La popolazione del Paese è composta in gran parte da giovanissimi e ragazzi costretti, adesso, a confrontarsi con uno Stato letteralmente messo in ginocchio dal sisma, incapace a provvedere alle prime necessità, assolutamente non in grado di offrire delle prospettive credibile ad una popolazione che rischia lo sterminio per fame e mancanza di acqua potabile.

Si, perché di questo si potrebbe trattare se un grande moto di solidarietà non si dovesse mettere in moto dopo un terremoto destinato a minare alla base le fondamenta di uno dei paesi più poveri del mondo.

Non mobilitarsi per il Nepal significherà davvero chiudere gli occhi su quello che potrebbe trasformarsi in un genocidio senza responsabili diretti. Anche se quelli indiretti non mancano visto che, assieme ai vecchi templi, sono crollati proprio i palazzi più recenti, costruiti senza quei criteri antisismici che i tremori continui e conosciuti del Nepal richiedevano e che gli esperti continuavano ad auspicare.

Oggi, però, di fronte all’immane sciagura di cui intravediamo solamente i primi tratti, non c’è tempo per queste considerazioni, anche perché immane può essere, con quello dei vecchi tempi, dei vecchi edifici, dei vecchi segni lasciati nei millenni da più etnie colte e raffinate, la distruzione del patrimonio culturale, archeologico ed artistico di un intero popolo. Un popolo che, assieme, potrebbe ritrovarsi, allora,  senza un passato e senza un futuro.

Noi siamo un Paese stanco. Siamo stravolti da grandi e piccoli problemi che ci stanno fiaccando. Abbiamo appena constatato, per l’ennesima volta, l’esistenza di un dramma che si consuma sul nostro uscio di casa, tra Libia e Pantelleria, e ci richiama a responsabilità che vorremmo allontanare.

Il Nepal è lontano e noi abbiamo ancora da lenire le ferite dell’Aquila. Abbiamo ancora in baracca alcuni terremotati di qualche volta fa…

Basta tutto ciò per far diventare il dramma del Nepal, ancora non emerso tutto intero nella sua terribile grandiosità, solo un commovente spettacolo televisivo? Siamo stanchi, ma siamo costretti ad alzarci e andare ad aiutare i nostri simili per quanto lontani essi siano.

L’abbiamo già fatto per l’India di Indira Ghandi, per il Biafra, per i “boat people” del Vietnam e tante altre situazioni. Quando, forse, eravamo meno stanchi e più certi delle nostre responsabilità storiche derivanti anche dal fatto che noi siamo l’Italia. Un Paese che ha sempre trovato l’orgoglio per non far mancare il proprio impegno a favore di chi ne aveva bisogno e che, come in Iraq e in Siria, ha concretamente ricordato al mondo l’importanza di impegnarsi per salvare, con gli uomini, anche i segni ed i resti più importanti lasciati lungo il “cammino umano”.

Giancarlo Infante