16 Marzo. Un anniversario che dopo 37 anni non vede chiuso il caso Moro
16 Marzo 1978. Giornata fredda. Giornata terribile. Non per il gelo, però. Bensì, perché quel giorno si apre il caso Moro. Una vicenda che ancora oggi, dopo 37 anni, non solo non è chiusa, ma ha addirittura visto allargare il novero delle domande rimaste senza risposte.
Prima, la deposizione di monsignor Mennini dinanzi alla Commissione parlamentare d’indagine sul Caso Moro presieduta dall’on. Giuseppe Fioroni. Poi, le notizie su numerose cassette audio ritrovate in un covo brigatista e che pare non siano state adeguatamente valutate a suo tempo dagli inquirenti. Solo le ultime conferme sul fatto che siamo ancora molto lontani dalla verità. Non di tutta la verità, ovviamente, perché alcune cose sono state documentate ed acclarate.
E’ il quadro politico di quel sequestro e di quegli omicidi, prima dei cinque agenti di scorta e, dopo 55 giorni . di Aldo Moro, che non ha ancora ricevuto tutti i colpi di pennello necessari per delineare un’intera vicenda da cui é dipeso il successivo sviluppo preso dalle cose italiane.
Siamo di fronte ad un caso che sotto il profilo investigativo e giudiziario parte subito male. A cominciare dai primi minuti immediatamente successivi all’attacco di via Fani.
In questa strada, proprio sul lato opposto all’angolo dove la vettura con Moro a bordo e quella con la scorta, furono costrette a fermarsi prima di essere investite da una pioggia di fuoco, viveva un giovane signore. Marito appena separato di una giornalista, redattrice parlamentare di un’agenzia stampa, fu svegliato dal crepitio delle armi.
Corse alla finestra e fotografò la scena del delitto che lui poteva inquadrare comodamente dall’alto e da pochi metri di distanza. E’ possibile che quelle foto non contenessero niente di diverso dalle immagini di una strada da cui i brigatisti si erano già allontanati.
Probabilmente sotto shock, non sapendo cosa meglio fare, questo signore chiamò la moglie per chiedere consiglio. Si sentì invitare a recarsi alla Procura della Repubblica con l’accortezza di chiedere formalmente di non veder rivelato il proprio nome.
Dopo poche ore venne, invece, rilasciato un comunicato stampa ufficiale con cui si rendeva noto l’esistenza del rotolino e, di fatto, si faceva benissimo capire chi lo avesse utilizzato.
Ovviamente l’incolpevole fotografo pensò bene di sparire per un po’ di tempo. La moglie separata si pentì immediatamente del consiglio dato e cominciò a spargere a piene mani tra i colleghi ed i suoi conoscenti del Parlamento salaci commenti su chi stava conducendo le indagini. Allora, lei per prima, tutti pensarono al pressapochismo ed alla mania di protagonismo che non è mai mancata anche tra i magistrati inquirenti. Poi, sono emersi tutti gli aspetti scuri che hanno riguardato la presenza in Via Fani di personaggi che non avrebbero dovuto esserci e che forse erano lì non per fermare i brigatisti ma, al contrario, per fare in modo che i terroristi non fossero disturbati.
Guarda caso negli anni passati sono fiorite le notizie, con tanto di nomi e cognomi, su uomini delle istituzioni coinvolti direttamente o indirettamente nel caso Moro. Anche recentemente, però, si è parlato del quasi certo coinvolgimento di uomini delle istituzioni non italiane. Il libro dell’ex magistrato ed ex parlamentare Ferdinando Imposimato è noto. Sui difficili rapporti tra Henry Kissinger ed Aldo Moro si è a lungo parlato. Nelle scorse ore è tornato a parlarne anche Giovanni Galloni che, a lungo, è stato vicino allo statista democristiano e che ha vissuto da vice segretario del partito tutto il periodo del sequestro.
Galloni in una recente intervista concessa al senatore Lucio d’Ubaldo sul Domani d’Italia è molto esplicito nel ricordare le minacce dell’esponente americano contro lo statista italiano di cui, certo, Kissinger a dispetto della sua fama di raffinato politologo non arrivava a comprendere realismo, prospettive e raffinatezza di pensiero:
“ Pochi giorni prima del suo rapimento- dice Galloni-, mi confidò di avere avuto notizia dai nostri servizi di sicurezza che gli americani e gli israeliani, informati sul conto delle Brigate rosse, avevano nascosto alle autorità italiane quanto era giunto a loro conoscenza. Del resto, se ci fosse stata collaborazione durante il sequestro, probabilmente avremmo scoperto in tempo utile i covi dei gruppi terroristici.
Moro, con me, si dichiarò molto preoccupato. Certamente intuiva che dietro le manovre dei brigatisti si poteva anche intravedere l’ombra di potenze straniere. Abbiamo constatato, nei drammatici giorni della prigionia, di quali coperture potevano godere i vari Moretti, Gallinari, Morucci. La dinamica dell’eccidio di Via Fani rivela una capacità di esecuzione altamente sofisticata. Ancora bisogna capire quanti uomini vi parteciparono, quali dispositivi di comando entrarono in funzione, cosa sia realmente accaduto, a chi fece capo realmente la regia dell’operazione”.
Giovanni Galloni afferma ancora:
“A depistare, prima e dopo il rapimento di Via Fani, furono gli uomini legati alla “Gladio bis”. Possiamo desumere, sulla scorta delle informazioni raccolte, che questa struttura fosse già a conoscenza del rapimento di Moro dodici giorni prima che ciò avvenisse a Via Fani.
Cossiga, a mio giudizio, fu perlomeno debole. Al Viminale regnava sovrana la confusione più grande e nella confusione si confermò la presenza di funzionari infedeli allo Stato democratico, poi scoperti nelle liste della P2. La presenza di Licio Gelli alle riunioni riservate al Ministero dell’Interno, il ruolo esercitato dal vice-segretario di Stato americano Steve Pieczenik, la visita a Washington nel periodo del sequestro di Vito Miceli, ex capo del Sid coinvolto nel “Golpe Borghese”, il fatto che i due, Pieczenick e Miceli, in pratica si danno il cambio, con il ritorno del primo in America quando il secondo rientra in Italia dal suo viaggio; ecco, sono tutti elementi, questi, che mettono allo scoperto l’attività di figure, con responsabilità formali o ruoli occulti, impegnate a declinare la fermezza in termini di semplice eliminazione, fisica o morale, di Aldo Moro”.
L’ex parlamentare democristiano precisa ulteriormente:
“Occorre notare che sempre Steve Pieczenik, in un’intervista al “Corriere della Sera” dello scorso 17 luglio 2014, nella quale si riassume il contenuto dell’interrogatorio svolto in Florida con il dottor Luca Palamara della Procura di Roma, afferma con assoluta freddezza: “L’ordine non era di far rilasciare l’ostaggio, ma di aiutarli [si riferisce ai responsabili politici e istituzionali del nostro Paese] nelle trattative relative ad Aldo Moro e stabilizzare l’Italia”.
La strategia consisteva nella stabilizzazione del quadro politico italiano, ponendo fine all’esperimento della solidarietà nazionale e chiudendo le porte alla strategia morotea della “terza fase”. Esattamente quello che senza mezzi termini aveva chiesto Henry Kissinger nel colloquio con Moro. Le Brigate Rosse, dunque, potevano anche evitare di procedere alla eliminazione fisica del presidente perché l’obiettivo politico era stato raggiunto. Se hanno agito diversamente, è forse dipeso da una superiore ragione imposta da un vertice a noi sconosciuto.
A diverso titolo, Cia Kgb e Mossad hanno segnato il percorso delittuoso dei terroristi: dai loro archivi, ove mai fossero aperti, potremmo allora ricavare più precisi elementi di valutazione”.
A questo punto non c’è da auspicare che la nuova Commissione parlamentare d’inchiesta riesca a fare ulteriori passi avanti verso la verità. E’ forse illusorio ed ingenuo aspettarsi che qualche sprazzo di luce possa venire anche da entità straniere che dopo il cambio dello scenario internazionale e in virtù anche della profonda amicizia che l’Italia ha sempre dimostrato nei loro confronti potrebbero pure fornire qualche elemento in più.