Che gli Agnelli siano stati i beneficiari di una sorta di miracolo è fuori di dubbio. Che questo miracolo possa giovare anche alla salute dell’industria e dei lavoratori italiani dell’auto sarà tutto da dimostrare. Per ora quello che si può fare è riconoscere i meriti di quel signore che ha bandito giacca e cravatta anche nelle occasioni importanti. Questo signore, che ha fatto del minimalismo nel vestire il suo marchio di fabbrica si chiama Sergio Marchionne. Chissà cosa avrebbe pensato di lui Gianni Agnelli che dello stile, anche nel vestire, aveva fatto un culto. Tanto da commettere volontariamente delle sgrammaticature, come il cinturino dell’orologio sopra il polsino della camicia o il nodo asimmetrico della cravatta, pur di affermare il suo dominio assoluto sulle mode e sul gusto.
Che Marchionne per gli Agnelli abbia compiuto un capolavoro credo che nessuno possa essere di parere contrario. Nemmeno il leader della Fiom, Maurizio Landini. Anche se ha ragione chi mette un interrogativo grosso come una casa sul fatto che il capolavoro possa finire per giovare anche all’industria dell’auto italiana e agli operai che vi lavorano.
Fu la prima boccata d’ossigeno per gli Agnelli che erano ormai alla canna del gas. Poi venne Marchionne il quale, prima tappò qualche buco con il successo della nuova 500, poi convinse Obama a cedergli, gratis, una buona fetta della Chrysler sull’orlo del fallimento.
Il resto è cosa di questi giorni la Fiat non è più italiana, e ora si chiama Fca. Ma gli Agnelli, da proprietari di una fabbrica italiana sul punto di chiudere ora si ritrovano proprietari di una fabbrica americana che l’anno scorso ha realizzato 2,700 miliardi di utili.
Ditemi se questo non è un miracolo. Se poi l’aureola di Marchionne riuscirà a fare effetto anche su i lavoratori della Fiat e sull’industria italiana, che è la cosa che ci deve stare più a cuore, sarà tutto da verificare, anche se san Ferrari, san Maserarti e san Alfa Romeo lasciano ben sperare.
Claudio Pavoni