L’Italia deve confrontarsi in queste ore con la classica situazione di trovarsi davanti a due notizie, una buona e una cattiva. Partiamo da quella buona: la Borsa di Milano dopo molte sedute in rialzo ha toccato il suo record storico sopra i 20 mila punti, ed ha quindi superato i massimi che aveva raggiunto nel luglio nel 2011, prima che esplodesse il livello dello spreed.
La notizia cattiva è che ci sono ben poche probabilità che l’emorragia dei posti di lavoro possa essere tamponata in tempi brevi ed è invece possibile che ai dati spaventosi del 2013, con i senza lavoro schizzati ben oltre i tre milioni e il ricorso ad un miliardo di ore di cassa integrazione, si aggiungano altre perdite: al ministero del Lavoro sono già in corso trattative che coinvolgono 154 vertenze, i cui effetti, sommati insieme, potrebbero aggiungere, agli attuali, altri 200 mila disoccupati.
Dove ha trovato questo denaro la Borsa italiana per potere navigare a vele spiegate? Nella montagna di dollari stampati dalla Federal Reserv americana, nella montagna di quattrini stampati dal Giappone, dalla disponibilità della Bce a rifinanziare le banche praticamente a tasso zero.
Il fenomeno di questa massa di denaro pompata sui mercati è tale da avere coinvolto anche le banche italiane, che non a caso hanno contribuito parecchio al record storico del listino della Borsa di Milano, nonostante da circa due anni abbiano praticamente chiuso il rubinetto dei prestiti e ridotto al lumicino la loro attività suoi mutui. Il discorso prende tutt’altra piega, però, se si passa dalla finanza all’ economia reale, ai consumi, all’ occupazione.
Se non fossimo quel Paese che Paolo Sorrentino ha definito giustamente “un po’ matto e meraviglioso” i suoi governanti avrebbero già convocato una sorta di stati generali dell’economia per farsi spiegare dal’Italia che funziona, dai Del Vecchio, Della Valle, Farinetti, Marchionne, solo per fare qualche nome, che cosa bisogna fare per trasferire nelle fabbriche una parte del ritrovata salute della Borsa. Invece continuiamo a vedere il pallino della ripresa in mano a due duellanti esperti di teoria e poco di pratica, come il ministro Saccomanni, di
L’ Abi, l’Associazione bancaria italiana e il Censis guidato da De Rita, uno dei pochi che ha una visione globale dell’Italia, hanno provato a fare quello che avrebbe da tempo dovuto fare il governo, cioè si sono messi a studiare da dove cominciare per riprendere le fila dello sviluppo partendo dal territorio, cioè da quello che passa il convento. Ebbene l’Abi e e De Rita sono arrivati alla conclusione che non c’è una sola Italia, o duje Italie, divise da nord e sud, ma ben otto Italie che “non hanno bisogno e non chiedono più denaro, ma una politica economica coraggiosa, chiara e sostenibile”.
Ora si tratterà di spiegarlo alla “nona Italia”, quella unicamente attenta ai duelli fra Saccomanni e Brunetta.
Claudio Pavoni