Il Circo Massimo venne realizzato, secondo la leggenda, in età arcaica nella “Vallis Murcia”, vale a dire la depressione tra i colli Palatino ed Aventino. L’origine del nome è legata ad una divinità arcaica, chiamata appunto Murcia, il cui culto era venerato in un sacello alle pendici settentrionali dell’Aventino. Si trattava quindi di una zona pianeggiante, in cui scorreva un corso d’acqua, che rivestì fin dalle origini della città un ruolo di grande importanza; anche sulla Vallis Murcia ebbero grande influsso sia la vicinanza al guado del Tevere presso l’isola Tiberina ed i vantaggi legati alle attività economiche e commerciali instauratesi grazie ad esso, sia la sua naturale posizione di passaggio per le direttrici stradali rivolte a sud. Inoltre, all’inizio questa potrebbe aver rappresentato una zona franca, destinata allo svolgimento delle attività di scambio tra le varie comunità di pastori stabilitesi sui colli vicini.
L’antica frequentazione di questa zona risulta chiara nei racconti leggendari: nel corso dei giochi indetti da Romolo nella valle per festeggiare il rinvenimento dell’altare dedicato a Consus (la divinità del seme del grano o, forse, il dio protettore dei cavalli) si sarebbe verificato l’episodio del ratto delle Sabine, grazie al quale, per l’entrata dell’elemento femminile, si garantì la sopravvivenza della Roma appena fondata. La costruzione del Circo sarebbe stata, invece, opera dei Tarquini, e andrebbe collegata all’istituzione dei ludi romani. Per la realizzazione dell’opera si rese necessario livellare l’area e canalizzare le acque presenti; a tal scopo dovrebbe essere stata realizzata una cloaca, della quale, al momento, non è stata trovata traccia.
Il circo era di dimensioni eccezionali, con 421 metri di lunghezza e 118 metri di larghezza; attorno alla pista correva un “euripo” (canale) di uguale lunghezza e della profondità di 2,96 metri; la cavea risultava costituita da tre fasce, di cui solo quella inferiore era in pietra, mentre le due più in alto erano in legno, raggiungendo, all’epoca, una capacità di 150.000 spettatori. I carceres, rettilinei, dalla parte del Tevere, erano a cielo aperto, mentre il lato opposto era curvilineo. All’esterno correva l’ambulacro, tramite il quale si poteva accedere alle varie strutture, tra cui le botteghe, aperte verso l’esterno. E’ proprio da esse che, nel 64 d.C., avrebbe avuto origine il terribile incendio di Roma.
Stando alla descrizione tramandataci da Plinio, al tempo di Vespasiano l’edificio doveva apparire come uno dei più belli di Roma, con una capienza pari a 250.000 spettatori. Inoltre, in età flavia, venne eretto al centro del lato breve curvilineo un arco, dedicato nell’81 d.C. a Tito per celebrare la vittoria giudaica. Poco dopo, però, un nuovo incendio dovette danneggiare seriamente il circo, come lascia supporre il fatto che parte dei resti superstiti appartengono alla lunga ricostruzione che venne commissionata da Domiziano e che fu terminata da Traiano nel 103 d.C..
Nei secoli successivi si hanno notizie di molti piccoli interventi di restauro, di cui rimangono le prove nei rifacimenti delle murature, e di abbellimenti. Agli inizi del III secolo, infatti, il circo Massimo doveva essere ancora perfettamente funzionante, tanto che Settimio Severo fece collocare tra esso e il Palatino delle strutture terrazzate che scendevano dal colle fin quasi ai palchi
Anche oggi, se ci soffermiamo ad osservare il vasto prato che ricopre tutta l’area, ci possiamo rendere conto come, nei secoli, poco o nulla sia stato fatto per riportare alla luce ciò che resta di questa magnifica struttura. Pensiamo solo che un piano regolatore del 1931, fortunatamente mai realizzato, prevedeva il simpatico progetto di collocare, tra i ruderi, dei campi da tennis.
Quindi, nulla è cambiato. I secoli scorrono e, con essi, la polvere del tempo continua ad accumularsi. Quello che nessuno ha ancora compreso è che la nostra Roma necessita non solo di metropolitane che distruggono il sottosuolo (e con esso importanti reperti storici), ma anche di valorizzazione del nostro passato. E’ avvilente vedere come in paesi stranieri delle piccole vestigia dell’epoca romana rappresentino il fulcro del turismo della zona, mentre il nostro immenso patrimonio rimane sepolto sotto quattro metri di terra.
Stefania Giannella