Una vergogna tutta italiana: l’incapacità di utilizzare 30 miliardi di finanziamenti europei

Una vergogna tutta italiana: l’incapacità di utilizzare 30 miliardi di finanziamenti europei

La politica europea di coesione territoriale assorbe il 35% del budget comunitario, al fine di ridurre le disparità economiche e sociali, aumentare la competitività con lo sviluppo di infrastrutture e proteggere l’ambiente, il più possibile di pari passo su tutto il territorio dell’Unione.

 Tali risorse sono destinate principalmente al Fondo europeo di sviluppo regionale, accessibile per tutti i Paesi membri, e al Fondo di coesione, cui possono accedere solo gli Stati con meno del 90% della media europea del Pil pro capite.

Questi finanziamenti europei sono stati aumentati in maniera strutturale, cioè definitiva, del 12% nel 2004, in seguito all’allargamento a beneficio di altri dieci Paesi dell’Europa centro-orientale. In quell’occasione la popolazione della Unione europea aumentò di quasi il 20%, ma il Pil solo del 5 %.

 Di conseguenza, il baricentro degli investimenti comunitari si è spostato da più di un decennio verso Est, per favorire lo sviluppo delle regioni più povere del Continente. Tuttavia, il programma d’integrazione europea non è privo di limiti: nella pratica, l’utilizzo delle risorse è poco controllabile, mentre persiste una contraddizione intrinseca al disegno comunitario che ricerca, sì, solidarietà e coesione, ma in concreto è basato sul libero mercato, quindi sulla competitività.

 L’Italia, che al pari di Stati come Germania, Francia e Olanda, è un contributore “netto” nei confronti dell’Europa, cioè dà a Bruxelles più di quanto riceva, è però anche il secondo Paese in cifre assolute a ricevere più fondi per la coesione territoriale, dietro la Polonia.

Quest’ultima ha ricevuto poco meno di 70 miliardi fra il 2007 e il 2013, riuscendo non solo a impiegarli quasi tutti, ma facendo anche fruttare tali investimenti creando posti di lavoro stabili e nuove imprese. Le infrastrutture così finanziate (treni, strade, banda larga) hanno reso la Polonia la testa di ponte fra l’Europa orientale e il resto del Vecchio Continente, mentre i soldi spesi in ricerca hanno alimentato la competitività di una delle economie più dinamiche tra quelle dei 28, che non ha praticamente percepito la crisi economica.

 All’Italia, invece, sono stati assegnati 27 miliardi nello stesso periodo e ne riceverà altri 32 fra il 2014 e il 2020, di cui 22 solo al Sud, in quanto il nostro Mezzogiorno costituisce tuttora una delle zone più depresse d’Europa.

Paradossalmente, però, proprio le regioni che avrebbero più bisogno di queste risorse, vale a dire Sicilia, Campania e Calabria, sono quelle che le usano meno o, addirittura, non le usano affatto. A queste tre regioni meridionali spetta circa il 40% dei fondi strutturali destinati a favore dell’Italia, ma la porzione realmente utilizzata è stata ben al di sotto il 20%.

Questo non è altro che il riflesso della incapacità delle amministrazioni locali italiane, spesso non in grado di definire e realizzare progetti con l’efficienza e la tempistica richieste da Bruxelles.

In molti casi, così, persino le regioni preferiscono finanziare progetti discutibili piuttosto che non accedere del tutto ai fondi: il caso più clamoroso fu il concerto di Elton John a Napoli, in seguito al quale la Regione Campania dovette restituire i finanziamenti all’Unione.

Oltre alle deficienze degli enti locali e delle regioni, spesso mancano gli stimoli e la coordinazione adeguata da parte dell’autorità centrale.

Una positiva eccezione fu segnata dal Ministro per la Coesione del governo Monti, Fabrizio Barca, capace di reindirizzare 13 miliardi che sarebbe altrimenti ritornati intonsi nel budget di Bruxelles dai bilanci delle regioni inadempienti al Piano di Azione Coesione, concepito proprio per sopperire ai ritardi, concentrando le risorse su obiettivi strategici per ottenere risultati che migliorino la qualità della vita.

 Se l’Italia fa spesso fatica a rispettare le normative europee può sembrare contraddittorio notare che è anche il Paese in cui si registra l’esistenza del maggior numero di società di consulenza sull’impiego dei fondi comunitari. Questo fa capire come le risorse di cui parliamo, preziose più che mai ad un’economia in debole ripresa, si disperdano spesso in un numero infinito di canali secondari: consiglieri, consulenze, preventivi, sub-appalti. Alla fine poco resta per il progetto finale.

Alla lentezza delle amministrazioni regionali e ministeriali nell’emanare i bandi, dovuta spesso alla mancanza di esperti, si aggiunge anche la rigidità di una burocrazia asfissiante che, in molti casi, fa dilatare i tempi di realizzazione oltre il limite fissato da Bruxelles. A tale proposito il Governo Renzi ha assunto pochi mesi fa 120 esperti in coesione territoriale, il cui apporto è ancora troppo presto per essere giudicato.

Alcuni, come fa l’economista dell’Università Bocconi Roberto Perotti nello studio scritto con Filippo Teoldi dal titolo Il disastro dei fondi strutturali europei”,  sostengono che i finanziamenti comunitari siano addirittura dannosi, dal momento che alimentano reti clientelari e corruzione, e sarebbe pertanto meglio rinunciarvi.

 Eppure, se impiegati bene in settori quali la cultura e il turismo, questi investimenti potrebbero portare a un sostanziale rilancio economico del Sud d’Italia, oltre a rispondere al suo bisogno endemico di infrastrutture.

 La linea dell’esecutivo è stata definita otto mesi fa dall’attuale Ministro per le infrastrutture e i trasporti, Graziano Delrio, allora “semplice” Sottosegretario della Presidenza del Consiglio con delega alla coesione territoriale, caratterizzata soprattutto dallo stop agli interventi “a pioggia” per perseguire obiettivi realmente strategici, mentre gli enti cui è delegata la gestione dei fondi se ne assumeranno finalmente la responsabilità.

 A ciò si aggiunge un rafforzamento dell’accentramento organizzativo tramite l’Agenzia di Coesione Territoriale, creata nel 2013, che opera azioni di programmazione e controllo in base al criterio di efficienza.

 Qualcosa si muove, insomma. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Ma in questo caso la retorica serve a poco: il Governo deve riuscire a sanare il “buco nero” dei fondi europei che, salvo qualche virtuoso esempio, è composto da reiterate inadempienze e sprechi scandalosi dietro cui si nascondono anche opache relazioni d’interesse.

Altrimenti come potremo far sentire la nostra voce a Bruxelles su questioni d’interesse nazionale se non riusciamo neanche a sfruttare pienamente i finanziamenti a cui abbiamo diritto?

 Luca Bertuzzi